Esattamente due anni fa (dicembre 2014) veniva alla luce il progetto di riforma del lavoro del governo Renzi, che si sarebbe poi sviluppato, nel corso del 2015, attraverso otto decreti legislativi che hanno innovato e regolamentato la materia. Uno degli interventi più noti e incisivi è stato senza dubbio quello in materia di licenziamenti, perché è riuscito a realizzare il “sogno” (della destra e del padronato) di eliminare l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, quantomeno per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del Dlgs. n. 23/2015: i licenziamenti illegittimi e ingiustificati dei “neo-assunti” (con, praticamente, la sola eccezione dei licenziamenti discriminatori), anche se ritenuti tali dal giudice, non vengono sanzionati con la reintegrazione nel posto di lavoro, ma solo da un modesto indennizzo, proporzionato agli anni di lavoro.
Tale maggiore flessibilità in uscita ci è stata presentata come rispondente a una duplice esigenza: quella di incentivare gli investimenti, specie stranieri, e quella di rendere più appetibile per il datori di lavoro l’assunzione a tempo indeterminato, con i nuovi contratti “a tutele crescenti”.
Un primo inganno lessicale che i promotori della riforma hanno ampiamente usato nella propaganda delle nuove disposizioni sta nell’affermare che in tal modo si è voluto favorire il “lavoro stabile” rispetto a forme di lavoro più precarie. Purtroppo il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è tutto meno che stabile, e persino l’aggettivo “indeterminato” perde di senso, a fronte di un rapporto di lavoro che può essere agevolmente risolto (e a poco prezzo) senza giusta causa o giustificato motivo. In altre parole si è combattuta la precarietà precarizzando il rapporto a tempo indeterminato.
Ma quello che non viene mai sufficientemente evidenziato, è che la finalità di incentivare le assunzioni a tempo indeterminato non è stata, in realtà, affidata al decreto legislativo n. 23, bensì ad altra, diversa e separata legge (la legge di Stabilità 2015, n. 190/2014), entrata in vigore tre mesi prima, che ha previsto fortissimi sgravi contributivi per gli assunti nel corso del 2015, poi prorogati – seppure per importi inferiori – per gli assunti nell’anno 2016: dal 2017 tutto torna come prima.
Non c’è dubbio che sia questa la disposizione che ha comportato un parziale aumento dei contratti a tempo indeterminato nel primo anno di applicazione (si è parlato di una “piccola bolla occupazionale”) e un più modesto (in proporzione al minor vantaggio) incremento nell’anno successivo, mentre è facilmente prevedibile che dal 2017 tutto tornerà come prima e le imprese cercheranno altrove (contratti di apprendistato, ove possibile, voucher o quant’altro) il modo di risparmiare.
E dopo questo biennio di pseudo crescita “drogata” – in misura comunque inferiore alle aspettative – della occupazione (in)stabile, che ha comportato per l’Inps un mancato incasso di quasi 10 miliardi di euro di contributi, cosa resta? Resta il decreto legislativo n. 23, che è consistito in un inaspettato e graditissimo cadeau alla Confindustria e ai datori di lavoro in genere, aggiuntivo rispetto all’enorme regalo dello sgravio contributivo: perché ritenere che un datore di lavoro che abbia necessità di assumere decida di rinunciarvi solo perché un suo eventuale licenziamento illegittimo potrebbe essere invalidato dal giudice è una barzelletta.
È vero invece che la possibilità di licenziare agevolmente anche per motivi inconsistenti modifica ulteriormente gli equilibri di potere all’interno dei luoghi di lavoro, rafforzando maggiormente la parte “forte” del rapporto. Il diritto del lavoro è sorto e si è sviluppato allo scopo di compensare con norme, di regola inderogabili, uno squilibrio di partenza che esiste tra due parti contrattuali, a una delle quali vengono attribuiti determinati poteri (gerarchico, disciplinare) che devono conciliarsi con il rispetto della dignità dell’altra.
La libertà di licenziare “a poco prezzo” sbilancia ulteriormente tale equilibrio e condiziona tutto il rapporto di lavoro durante il suo corso, favorendo la possibilità di abusi, intimidendo la parte debole e inibendola a rivendicare diritti. Queste sono le nuove regole lasciateci in eredità del governo sconfitto dal referendum, che sopravvivono al biennio di – apparente e dopato – incremento dell’occupazione. E il grande inganno comunicativo è stato quello di “vendere” il presunto aumento occupazionale come necessaria conseguenza dello smantellamento dei diritti.
Non si può fare niente per contrastarlo? In realtà ci sono in campo sia la proposta di legge della Carta dei diritti della Cgil sia uno specifico referendum tra i tre proposti dalla stessa Cgil, che si prefigge lo scopo di spazzare via l’intero decreto legislativo n. 23 del 2015, ripristinando per tutti l’art. 18 in versione persino più garantista. Della prima dovrà occuparsi il parlamento, mentre per il secondo, dopo la imminente pronuncia della Corte Costituzionale (il 10 gennaio), il nuovo governo dovrà fissare una data tra il 15 aprile e il 15 giugno: solo nel caso siano indette prima elezioni anticipate la consultazione referendaria slitterà al 2018. Non è quindi ancora detta l’ultima parola.
* Sono avvocato giuslavorista a Bologna e svolgo la professione dalla parte dei lavoratori. Ho scritto svariati articoli in riviste specializzate di diritto del lavoro, oltre a qualche libro in materia di licenziamenti individuali e collettivi e di comportamento antisindacale. Ho anche pubblicato un paio di romanzi e una raccolta di racconti.