Il Tribunale di Ferrara annulla il licenziamento disciplinare di una lavoratrice difesa dagli avvocati Antonella Gavaudan e Alberto Piccinini dello Studio Legale Associato e ordina la reintegra: il licenziamento è una sanzione sproporzionata al disvalore del fatto e alla storia professionale della lavoratrice.
“La dipendente di una banca, con qualifica di Quadro, si era trovata nella difficile situazione di avere la necessità di rilevare, dal marito da cui si stava separando, la quota di una appartamento in co-proprietà (sul quale gravava un mutuo ipotecario) e nel contempo ottenere un ulteriore mutuo allo scopo di estinguere il precedente e procurarsi la somma necessaria a liquidare il coniuge liberandolo da ogni onere: circostanza, quest’ultima resa difficile dall’ancora vigente regime di comunione dei beni.
Dopo aver presentato, in veste di cliente, una “richiesta di affidamento” (controfirmata da un funzionario bancario della stessa filiale e caricata, insieme con la relativa documentazione e una relazione accompagnatoria, nel sistema informatico dell’istituto di credito) contattava i colleghi dell’Ufficio competente per conoscere il loro parere in merito alla accoglibilità della domanda, sentendosi rispondere, telefonicamente, che il coniuge non avrebbe potuto essere liberato dall’operazione stante il regime di comunione dei beni della coppia.
Anche successivamente gli stessi funzionari ribadivano di considerare “la richiesta molto anomala” suggerendo alla lavoratrice di richiedere un parere legale, in quanto si riteneva che prima di concedere il mutuo dovesse essere dissipata la problematica del regime patrimoniale tra i coniugi.
La lavoratrice, dopo aver cercato il contatto con il legale della banca ed essersi consultata con colleghi di un altro istituto bancario e con il notaio dell’Istituto, acquisita la definitiva consapevolezza che in regime di comunione il nuovo contratto di mutuo non avrebbe potuto essere stipulato liberando il coniuge, e sapendo che gli istituti di credito evitano di formalizzare delibere negative di concessione di mutuo, predisponeva una comunicazione su carta intestata della Filiale indirizzata a … se stessa (come cliente) avente ad oggetto “richiesta di mutuo” nella quale si comunicava l’impossibilità “allo stato attuale, di procedere con la concessione del mutuo e la liberazione del coniuge” chiedendo al suo sottoposto (che poi negherà di averlo fatto) di siglarla.
Conseguentemente la faceva pervenire al proprio coniuge per evidenziare l’impossibilità di esonerarlo dalla garanzia fintantoché fosse rimasto il regime di comunione dei beni.
La società licenziava la direttrice considerando di particolare gravità l’invio di tale lettera “priva di riferimenti rituali e non sottoscritta dalle strutture competenti” aggiungendo che la stessa non sarebbe stata “comunque riconducibile in alcun modo alla volontà degli esponenti aziendali preposti”. Ciò avrebbe costituito gravissima violazione degli obblighi legali, delle procedure aziendali, del dovere di astenersi da qualsiasi atto comportante un conflitto di interessi, del dovere di diligenza e del dovere di fedeltà.
Il licenziamento veniva impugnato presso la Sezione lavoro del Tribunale di Ferrara che fissava la prima udienza “in presenza” – ovviamente con le dovute cautele (distanziamento e mascherine) – il 12 maggio 2020, primo giorno di apertura dei tribunali dopo il lockdown per l’epidemia del Covid-19).
Venivano sentiti numerosi testi e all’esito dell’istruttoria la Giudice, pur considerando “il fatto disciplinare sussistente” riteneva insussistenti altri fatti contestati dalla banca dalla banca che avrebbero evidenziato, a parere della società, la pretesa gravità della situazione, a partire dalla lettera su carta intestata della banca (che per la Giudice “non presenta nessun dato formale in grado di recare , di per sé, disdoro alla banca”) per arrivare alla asserita non riconducibilità alla volontà degli esponenti aziendali del contenuto della missiva. Lapidaria la Giudice a tale proposito: “dall’istruttoria è emerso il contrario”.
Conclusivamente l’ordinanza stabilisce che “non sussiste una giusta causa di licenziamento, né un giustificato motivo soggettivo: il licenziamento è una sanzione sproporzionata al disvalore del fatto e alla storia professionale della lavoratrice”.
Anche dal punto di vista sanzionatorio il provvedimento giudiziario è importante, perché la lavoratrice, pur essendo stata assunta il 22 giugno 2015 (e quindi successivamente al nuovo regime di Jobs Act introdotto dal D.lgs. n. 23/2015) aveva ottenuto l’inserimento di una clausola nel contratto di assunzione secondo la quale “le parti stabiliscono che al rapporto di lavoro di cui al presente atto, in totale deroga alle previsioni sopra richiamate, non si applicherà la disciplina delle cd. tutele crescenti bensì quelle di cui all’art. 18 della L. 300/70” con applicazione del cd. Rito Fornero.
La società aveva eccepito in giudizio la nullità della clausola sostenendo che la disciplina legislativa sui licenziamenti di cui al Jobs Act sarebbe inderogabile perché dettata per un superiore interesse pubblico.
Così replica l’ordinanza: “Ritiene il giudicante che sia l’autonomia collettiva sia la contrattazione individuale possano introdurre trattamenti più favorevoli di quelli minimi previsti dalla legge. Quello che l’autonomia privata non può fare è convenire per il lavoratore condizioni meno favorevoli di quelle previste dalla legge”.
Alla luce di queste considerazioni La Giudice valuta le sanzioni disciplinari offerte dalla contrattazione collettiva, evidenziando che essa “all’art. 44 enuncia le sanzioni disciplinari e tipizza i comportamenti disciplinarmente rilevanti che danno luogo al licenziamento e, per esclusione, gli altri (art. 44 lettere d) ed e)” per concludere che per le parti collettive, ove non ci si trovi di fronte ad un inadempimento notevole degli obblighi contrattuali o ad una mancanza così grave da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto, “tutti gli altri comportamenti danno luogo ad una sanzione conservativa, da graduare secondo i criteri indicati nel primo comma dell’art. 44”.
Ritenendo, quindi, applicabile al caso di specie una sanzione conservativa, il Tribunale di Ferrara ha annullato il licenziamento della dipendente e ordinato alla banca la reintegrazione nel posto di lavoro condannandola a pagare un’indennità risarcitoria dal licenziamento alla reintegrazione.