Dal recupero crediti per gli immigrati clandestini all’accertamento di lavoro subordinato con ricorso ex art. 700 c.p.c.
Come noto, la nostra Repubblica tutela il lavoro in sé (art. 35, com. 1 Cost.), come valore fondante (art. 1 Cost.) e nel nostro ordinamento non sono previste differenze di tutela tra lavoratori assunti regolarmente e lavoratori assunti irregolarmente. Ma cosa accade quando a denunziare un rapporto di lavoro irregolare è un extracomunitario privo di permesso di soggiorno? La questione può essere affrontata da molti punti di vista e, in questa sede, tralasceremo quelli relativi alle norme penali ed al diritto dell’immigrazione in senso stretto.
È qui sufficiente ricordare che l’art. 22 comma 12 della Legge n. 286/98 stabilisce che ” Il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno (…) è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno e con l’ammenda di 5.000 Euro per ogni lavoratore impiegato.” È bene anche ricordare che la denunzia di un rapporto di lavoro irregolare non comporta la concessione del permesso di soggiorno per il lavoratore che ne è privo, a meno che la denuncia non riguardi uno sfruttamento che rasenta la riduzione in schiavitù e che è posto in essere da una organizzazione criminale. Solo in questo caso, l’art. 18 della legge n. 286/98 consente la concessione di un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale con la possibilità di esercitare attività lavorativa.
Tornando agli aspetti che riguardano più direttamente il diritto del lavoro, è opportuno ribadire che, come sottolineato anche dalla Suprema Corte, la pendenza di un rapporto di lavoro risulta svincolata dalla sussistenza o meno di un permesso di soggiorno in capo al lavoratore: “il permesso di lavoro è richiesto non ai fini della validità del contratto, ma solo ai fini della sua efficacia. Nell’ipotesi, poi, in cui il contratto riceva di fatto esecuzione anche durante un periodo di carenza del permesso, sembra ipotizzabile l’applicabilità in via estensiva dell’art. 2126 cc (Cass. civ, sez. lav., 11/07/01 n. 9407)”. L’immigrato irregolare che svolge attività lavorativa e non è retribuito può dunque agire giudizialmente per richiedere l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato ed il pagamento delle somme a lui dovute in relazione al lavoro svolto.
Poiché però egli non potrà comparire né davanti alla Direzione Provinciale del Lavoro né davanti al Giudice, perché correrebbe il pericolo di essere fermato ed espulso, è necessario che nomini un suo rappresentante, mediante procura notarile, che lo rappresenti nelle varie fasi stragiudiziali e giudiziali.
Il rappresentante può essere identificato nel sindacalista che ha seguito la vicenda ed il costo della procura può essere molto ridotto mediante la stipula di convenzioni con uno o più notai.
Superato questo scoglio, la causa prosegue regolarmente, con qualche altro piccolo accorgimento.
I conteggi, per esempio, dovranno essere effettuati sulla base dei minimi tabellari del CCNL applicabile ma la richiesta economica dovrà essere formulata anche ai sensi dell’art. 36 Cost e 2099 c.c. perché tra le parti sicuramente non è stato stipulato alcun contratto scritto e non è dato sapere se il datore di lavoro è firmatario di contratti nazionali o aziendali.
È inoltre consigliabile non richiedere il pagamento delle ore di straordinario in caso di straordinario discontinuo, a causa delle difficoltà che si incontrerebbero dal punto di vista probatorio; in questi casi è opportuno limitarsi, nella ricostruzione delle buste paga, e nella quantificazione della richiesta, alla retribuzione calcolata in base al numero di ore mensili standard previste dal CCNL di riferimento per quel tipo di attività. Il presupposto per ottenere il pagamento della retribuzione dovuta in base al lavoro svolto è ovviamente l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Non essendovi normalmente nulla di scritto, assume fondamentale importanza la fase istruttoria ed in particolare l’interrogatorio formale del legale rappresentante della controparte e la prova per testi.
I testimoni, se stranieri, dovranno essere muniti di permesso di soggiorno anche perché, diversamente, non si presenterebbero a rendere la testimonianza per ovvi motivi.
In un recente caso affrontato dallo scrivente, due lavoratori stranieri hanno chiesto tutela nei confronti di un datore di lavoro che non aveva versato loro la retribuzione per il lavoro svolto.
Gli stranieri avevano lavorato in un cantiere edile ed erano gli unici presenti in quel cantiere, erano stati assunti verbalmente ed irregolarmente e solo uno dei due era in possesso di permesso di soggiorno. Sulla base di questi presupposti è stato possibile tutelare giudizialmente solo il lavoratore privo di permesso soggiorno. Infatti solo lui avrebbe potuto dimostrare la sussistenza del rapporto sulla base della testimonianza del collega, mentre non avrebbe a sua volta potuto rendere testimonianza in favore del collega perché avrebbe corso il serio rischio di essere espulso.
Nelle cause di accertamento di rapporto di lavoro subordinato il Giudice, se richiesto, può condannare il datore di lavoro anche al versamento della contribuzione, nonostante il richiedente sia straniero e privo di permesso di soggiorno. In questi casi l’INPS deve aprire una posizione previdenziale in favore del ricorrente il cui ricorso sia stato accolto.
In alcuni casi è necessario procedere con molta celerità all’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Ciò avviene in particolare per i lavoratori stranieri, che sono oggi soggetti ad una normativa estremamente severa. Nelle fasi immediatamente successive all’ultima regolarizzazione degli immigrati si è avvertita fortemente l’esigenza di provare a richiedere pronunce di accertamento di lavoro subordinato utilizzando strumenti inusuali, come il ricorso ai sensi dell’art. 700 c.p.c. Questo è avvenuto per una serie di motivi.
Il D.L. 195/02 (conv. in L. 222/02), che ha consentito la più massiccia sanatoria o regolarizzazione degli ultimi anni, stabiliva che il datore di lavoro che ha “occupato, nei tre mesi antecedenti la data di entrata in vigore del presente decreto, alle proprie dipendenze lavoratori extracomunitari in posizione irregolare, può denunciare, entro la data dell’11 novembre 2002, la sussistenza del rapporto di lavoro (….)”.
Non può esservi dubbio alcuno che l’art. 1, comma 1, cit. determini, a carico del datore di lavoro, l’obbligo di regolarizzare la posizione lavorativa dei propri dipendenti irregolari extracomunitari.
Tale asserzione deve ritenersi pacifica anche se invero, da una prima lettura dell’articolo 1, comma 1, D.L. n. 195, l’espressione può denunciare, ragionando in termini meramente ipotetici, potrebbe portare a ritenere che il datore di lavoro che impieghi lavoratori extracomunitari irregolari abbia semplicemente la facoltà – e non l’obbligo giuridico – di regolarizzarli.
È tuttavia evidente che, un’interpretazione di questo tipo, non possa in alcun modo essere condivisa in quanto verrebbe a legittimare una situazione di fatto diametralmente opposta a quella perseguita dal legislatore con l’emanazione del D.L. n.195; ossia l’integrazione del cittadino extracomunitario fondata sul reale inserimento nel mondo del lavoro e la diminuzione del lavoro prestato in nero.
“Balza immediatamente agli occhi che l’unica interpretazione da escludere immediatamente è quella che annetta al testo un significato di carattere facoltativo. La norma, infatti, non può essere interpretata nel senso che il legislatore avrebbe affidato al datore di lavoro la realizzazione di una condizione meramente potestativa che solitamente si esprime nel latinetto “si voluero”, cioè se vorrò. Perché se lo scopo perseguito dal legislatore è quello di legalizzare il lavoro sommerso, prestato nel nostro Paese dagli extracomunitari la sorte di questi lavoratori non potrà certo essere affidata al solo gradimento datoriale (..) la legge non consente che tutto sia affidato al solo buon cuore del datore di lavoro, in quanto se il requisito del rapporto di lavoro trimestrale viene verificato come realmente realizzatosi, il datore di lavoro è sicuramente obbligato alla denuncia ed il “può denunciare” contenuto nella norma sta sicuramente a significare: “sussistono le condizioni perché denunci” Tribunale di Pisa Cron. N. 6062 del 10. 12. 2002 Fasc. RGC n. 1109/02.
Ritenere che la norma in esame ponga un obbligo in capo al datore di lavoro, d’altra parte, sembra essere l’unica interpretazione capace di salvaguardare la compatibilità della stessa con le inderogabili prescrizioni costituzionali a tutela del lavoro. Cosa ciò voglia dire dovrebbe essere scontato ma non è superfluo ricordare che, a differenza di altre tutele dispiegate nella Costituzione a favore dei soli cittadini, quelle attinenti il mondo del lavoro sono previste a favore della generalità dei lavoratori, senza possibilità di distinzione alcuna fra cittadini e stranieri.
È del tutto conseguente, dunque, che la tutela che la Repubblica deve apprestare al lavoro non può certo tradursi nell’affidamento al completo arbitrio del datore di lavoro, i cui interessi particolari possono anche non coincidere con l’interesse collettivo di tutela del lavoro disegnato nella Costituzione. Un’interpretazione diversa, che attribuisse alla discrezionalità datoriale la possibilità di regolarizzare i propri lavoratori irregolari extracomunitari, o solo alcuni scelti arbitrariamente tra questi, sarebbe, infatti, soluzione adottata in netto contrasto con il principio di uguaglianza e più dettagliatamente con il complesso degli artt. 1, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione.
Ad ulteriore e definitiva conferma dell’interpretazione che si viene sostenendo si pone infine quanto viene disposto dalla circolare emessa dal Ministero dell’Interno in data 31.10.2002 (c.d. circolare Mantovano).
Tale circolare afferma: “sono pervenuti a questo Dipartimento (Dipartimento della Pubblica Sicurezza n.d.r.) numerosi quesiti in ordine al ricorso presentato da alcuni cittadini extra-comunitari, impiegati in attività lavorative in modo irregolare, i cui datori di lavoro non intendono procedere alla loro regolarizzazione e che, in qualche caso, hanno anche interrotto il rapporto di lavoro, nei cui confronti gli interessati hanno adito formalmente le vie legali (…). La loro posizione si ritiene essere assimilata, in via temporanea, a quella dei perdenti posti di lavoro e rientrare quindi, nell’ipotesi di cui all’art. 22, comma 11, del Testo Unico, relativamente al rilascio del permesso di soggiorno per una durata di sei mesi”(doc.8). Dunque, come stabilito dallo stesso Ministero dell’Interno, anche i cittadini extracomunitari che hanno denunciato il datore di lavoro che si rifiutava di “legalizzarli”, hanno diritto all’ottenimento di un permesso di soggiorno della durata di sei mesi.
Da questa prescrizione si evincono indubitabilmente due elementi. Il primo è che il presupposto per la legalizzazione del lavoratore extra-comunitario è la sola sussistenza di un rapporto di lavoro in Italia a partire dal Giugno 2002 e fino al Settembre del 2002; il secondo è che, non essendo possibile considerare la regolarizzazione del lavoratore extra-comunitario irregolare affidata alla discrezionalità del datore di lavoro, le inadempienze di legge da quest’ultimo perpetrate non possono in alcun modo tradursi in un pregiudizio per il lavoratore. Il lavoratore extra-comunitario irregolare, infatti, come stabilito dalla summenzionata circolare, avrebbe comunque diritto all’ottenimento del permesso di soggiorno di sei mesi ove in possesso dei requisiti obiettivi richiesti dalla legge.
Nel caso in cui il datore di lavoro non avesse ottemperato a quello che era un suo preciso dovere, il lavoratore extracomunitario avrebbe dovuto con celerità far accertare giudizialmente di aver lavorato in quel periodo di tempo per ottenere il permesso di soggiorno.
Per questi motivi si è cercato in più luoghi, in Italia, di ottenere un’ordinanza ex art. 700 c.p.c. di accertamento della sussistenza di lavoro subordinato.
Con tre distinte ordinanze, anche diversamente motivate, il Tribunale di Pisa in data 10.12.2002, il Tribunale di Udine in data 24.10.2003 ed il Tribunale di Genova in data 12.03.2003 emettevano ordinanza ex art. 700 c.p.c. con la quale accertavano la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra i ricorrenti (tutti stranieri non in regola) ed i rispettivi datori di lavoro.
Su istanza dello scrivente, anche il Tribunale di Bologna si è pronunciato in due casi simili.
In ambedue i casi: il rapporto di lavoro non era regolarizzato, essendo il ricorrente lavoratore extracomunitario sfornito di regolare permesso di soggiorno; per il proprio lavoro, il lavoratore percepiva unicamente acconti sulla retribuzione inferiori al trattamento minimo sindacale; il lavoro si svolgeva sotto la direzione ed il controllo del datore di lavoro che, presente sul luogo di lavoro, stabiliva le modalità della prestazione, specificando di volta in volta le mansioni che il ricorrente doveva svolgere.
Nel primo caso, con ordinanza del 24.09.2004 (R.G.L. n.1856/04 del Tribunale di Bologna, sezione lavoro, Giudice Dott. Dallacasa), è stato deciso che: “……Le pronunce di accertamento sono in linea generale estranee al contenuto tipico di un provvedimento adottato ai sensi dell’art. 700 c.p.c., perché in relazione alla certezza delle situazioni giuridiche non si da il requisito dell’urgenza. Tuttavia il ricorrente è attualmente privo di permesso di soggiorno e soggetto al pericolo di espulsione dal territorio dello Stato.
Egli chiede urgentemente l’accertamento dei fatti dedotti, per poter instare l’autorità amministrativa al fine di ottenere il permesso di soggiorno temporaneo previsto dall’art. 22, c°11 d.lgs 286/98, ed in tal senso l’accertamento richiesto assume il carattere di un presupposto di una domanda amministrativa, e deve realizzarsi in tempo utile per la sua presentazione.
La domanda è pertanto ammissibile. (…) P.Q.M.: dichiara che sussiste evidenza probatoria che tra le parti intercorse un rapporto di lavoro subordinato nei tre mesi anteriori la data di entrata in vigore del decreto riguardante la legalizzazione del lavoro irregolare di extra comunitari, e che xxxxxxx assunse l’impegno di stipulare con il ricorrente contratto di soggiorno per lavoro subordinato”.
Nel secondo caso (ordinanza del 17.01.2005 R.G.L. n. 3030/04 del Tribunale di Bologna, sezione lavoro, Giudice Dott. Marchesini), il Giudice osservava che “dagli atti depositati è poi emerso che il ricorrente è cittadino extracomunitario privo di permesso di soggiorno e soggetto al pericolo di espulsione dal territorio dello stato, e richiede l’accertamento urgente dei fatti dedotti al fine di adire l’Autorità Amministrativa, per ottenere il permesso di soggiorno ….
Infatti l’accertamento richiesto costituisce presupposto della domanda amministrativa e deve avvenire in tempo utile per la presentazione della domanda amministrativa medesima. Sussiste pertanto anche il requisito del periculum in mora, posto che l’accertamento richiesto non sarebbe tempestivo, secondo gli ordinari tempi del giudizio ordinario, e l’espulsione dallo Stato Italiano costituisce un pregiudizio grave, immanente e non riparabile posto che, una volta espulso dallo Stato Italiano, il danno paventato sarebbe interamente consumato e non risarcibile in specifico.
P.Q.M.: il Giudice del Tribunale di Bologna in funzione di Giudice del Lavoro dichiara che tra xxxxxx e xxxxxx si è instaurato un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dal ……. al………
Dichiara altresì il diritto di xxxxxxxxxxxx, in forza delle mansioni svolte nel corso del rapporto di lavoro, ad essere inquadrato nel 1° livello CCNL Edilizia ed Artigiani, ed a percepire il conseguente trattamento economico. Assegna alle parti il termine di gg. 30 per l’inizio del giudizio di merito.”
Queste ordinanze dimostrano che è possibile oggi ottenere una declaratoria di accertamento di rapporto di lavoro subordinato anche in via di urgenza.
Questa strada può essere utilizzata in tutti i casi in cui, allo scadere del permesso di soggiorno, lo straniero non è in grado di documentare il reddito percepito durante l’anno precedente al rinnovo, in quanto ha lavorato per un periodo “in nero”.
Ciò accade spesso anche a coloro che sono titolari di permesso di soggiorno, perché gli stranieri sono costretti ad accettare qualsiasi condizione pur di lavorare.
Come noto, l’attuale legge “Bossi Fini” fa dipendere la concessione di un permesso di soggiorno dall’esistenza o meno di un rapporto di lavoro e/o dalla dimostrazione di aver percepito un reddito sufficiente nell’anno precedente al rinnovo.
Avvicinandosi la scadenza del permesso di soggiorno e non potendo dimostrare il requisito del reddito per aver lavorato”in nero”, è interesse del lavoratore extracomunitario richiedere con urgenza l’accertamento di un pregresso rapporto di lavoro non regolarizzato, anche al fine di poter dimostrare di aver percepito un reddito sufficiente per poter rimanere in Italia, pur in mancanza di una regolarizzazione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro.
In questi casi è possibile agire seguendo la strada del ricorso ex art. 700 c.p.c. appena descritta.
Con il presente articolo si è inteso fornire solo alcuni esempi delle possibili interazioni tra il diritto del lavoro e la normativa in materia di immigrazione.
Si è inoltre cercato di dare conto dei nuovi orientamenti assunti dalla giurisprudenza in materia, tenendo sempre presente che il compito dei giudici è quello di decidere le cause e scrivere le sentenze ma è compito degli avvocati stimolare e prospettare le soluzioni innovative su cui quelle decisioni si baseranno.
Antonio Mumolo
Avvocato giuslavorista