Correva l’anno 2018. L’allora Ministro dell’Interno, con grande enfasi, propose e fece approvare due Decreti, con il fine dichiarato di rendere più “sicura” l’Italia. Quando ho letto per la prima volta i cosiddetti Decreti Sicurezza ho pensato: è come se due menti perverse avessero deciso una strategia per creare maggiore insicurezza in Italia, colpire le persone più deboli e stroncare possibili proteste.
Ci sono norme che sembrano slegate tra loro, ma che perseguono un unico disegno, legate da un filo nero e spinato. E come si fa, si saranno chieste quelle due menti, a creare insicurezza, a suscitare diffidenza e paura verso i migranti? Innanzi tutto bisogna renderli visibili, dare sostanza alla “invasione” da cui lo stato dovrebbe proteggersi. Bisogna riempire le strade di immigrati. Detto fatto.
Con l’art. 1 (D.L. 113/2018 poi convertito nella legge n. 132/2018) viene cancellato il permesso di soggiorno per motivi umanitari, sostituito dal permesso per “casi speciali”. In concreto, si gettano in strada alcune migliaia di persone, rendendo inoltre quasi impossibile qualsiasi percorso di integrazione. Ma l’art. 1 vale per il futuro, si saranno dette quelle due menti; come renderne immediati gli effetti?
Così all’art. 12 si prevede l’immediato depotenziamento degli Sprar, stabilendo che non possono più accedervi le persone richiedenti asilo e richiedenti protezione umanitaria. Deve essere chiaro che queste persone devono finire in strada.
Con l’occasione diamo una lezione anche a chi si occupa di loro, partecipando ai bandi del Ministero: niente più finanziamenti per corsi di italiano, progetti di inserimento al lavoro, percorsi di integrazione. Con la conseguente perdita immediata di centinaia di posti di lavoro ed il rischio di perderne 15 mila, più di quelli che si rischia di perdere all’ILVA di Taranto (per dare un termine di paragone). Basta così? No, è ancora poco.
Ai richiedenti asilo, con l’art. 13, si cerca di togliere anche la residenza. Provate ad andare in cerca di lavoro senza la residenza e quindi senza poter prendere la patente, senza poter aprire un conto in banca, senza una carta di identità.
E così, impedendo loro di lavorare in regola, indirizziamo verso la strada altre migliaia di persone. E tutte queste persone in strada cosa potranno fare? Ridotte alla precarietà o alla clandestinità per decreto, potranno lavorare come schiavi, senza diritti, preda di datori di lavoro senza scrupoli. Oppure diventeranno manovalanza della criminalità organizzata. Risultato raggiunto.
Ma se dovessero invece chiedere l’elemosina? Va anche bene, così creano fastidio ed insofferenza anche verso i poveri. Mettiamo però in chiaro che suscitare un sentimento di solidarietà verso i più deboli non rientra tra gli obiettivi del decreto.
Così, con l’art. 21 quater, viene reintrodotto il reato di accattonaggio molesto, cancellato dal nostro ordinamento ormai 25 anni fa, perché quella fattispecie di reato era già prevista da altra norma senza utilizzare il termine “accattonaggio”.
Utilizzando, invece, il termine accattonaggio si chiarisce che chi chiede l’elemosina deve essere allontanato o punito. La povertà deve diventare una colpa, e non una condizione in cui chiunque può trovarsi. Ma dove dormiranno tutte queste persone, escluse dai percorsi di accoglienza e ridotte ad una vita di strada? Magari, in gruppi di cinque o sei per proteggersi, la sera troveranno case diroccate o abbandonate in cui cercare rifugio per la notte. Troppo comodo. Dovranno nascondersi anche per dormire.
Con l’art. 30 vengono raddoppiate le pene in caso di occupazione di immobili, anche per una sola sera, da due a 4 anni di reclusione. Solo per dare un’idea della abnormità della pena, se qualcuno vi provoca una lesione personale dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, il massimo della pena è tre anni di reclusione. Per coloro che dormono in una casa diroccata o abbandonata gli anni di reclusione sono quattro. Cosa potrebbero fare, a questo punto, persone ridotte alla disperazione? Potrebbero manifestare pubblicamente rivendicando la dignità di esseri umani. Rendiamo complicata anche questa possibilità.
Con l’art. 23 si inaspriscono le pene per chi manifesta in strada, dando così un avvertimento anche ai sindacati ed alle associazioni. Non crediate di poter manifestare impunemente: è meglio per voi se rimanete a casa a pensare a voi stessi. Oggi le spese di questo decreto le pagano i pastori sardi, rei di aver manifestato per la propria sopravvivenza, appoggiati pubblicamente, all’epoca, proprio dal ministro che ha sostenuto le norme per punirli. E se si rivolgessero a dei legali per far valere i propri diritti? Semplice, facciamo in modo che non trovino legali disposti a difenderli.
Con l’art. 15 si stabilisce che non saranno pagati compensi all’avvocato o al consulente tecnico nel caso in cui il ricorso sia dichiarato inammissibile o la consulenza appaia irrilevante. Tradotto, significa che saranno sempre meno gli avvocati o i consulenti che accetteranno di difendere i migranti attivando la legge sul “gratuito patrocinio”, poiché correranno il serio rischio di non percepire nulla per il loro lavoro, vista la facilità con cui i ricorsi vengono dichiarati inammissibili. È finita qui? Ancora no. Sempre quelle due menti, ideatrici del decreto, si saranno chieste: ma se uno su mille ce la fa? Se uno su mille supera tutti gli ostacoli, ottiene il permesso di soggiorno e dopo 10 anni chiede la cittadinanza italiana? Diventerà uno di noi così facilmente, con gli stessi doveri e gli stessi diritti? Anche no.
Intanto, con l’art. 14 comma 1 lettera c, si raddoppia il tempo entro il quale il Ministero deve dare risposta alle domande di cittadinanza, da 2 a 4 anni, così, chi richiede la cittadinanza, deve aspettare due anni in più ovvero 14 anni (10 di residenza in Italia più 4 per ottenere risposta alla domanda).
Poi, con l’art. 14 comma 1 lettera d, si stabilisce che, in caso di commissione di un reato grave, la cittadinanza può essere revocata, ovviamente solo per i migranti, perché se un cittadino italiano per nascita commette un reato ancora più grave la sua cittadinanza non viene revocata.
Il tutto in spregio al principio costituzionale di uguaglianza e ad ogni norma internazionale di contrasto all’apolidia, tenendo presente che chi ottiene la cittadinanza italiana deve, nella maggior parte dei casi, rinunciare alla cittadinanza del paese di origine. Se poi perde la cittadinanza italiana diventa apolide.
E per quanto riguarda il primo Decreto possiamo fermarci qui. Bel lavoro, no? Dopo un breve periodo di riposo quelle due menti si sono però rimesse all’opera. Perché, si sono domandate, non colpire anche chi, assurdamente, si attarda a salvare persone che rischiano di affogare in mare? Perché consentirgli impunemente e senza rischi di portarle, dopo averle salvate, in un porto sicuro, anziché consegnarle nelle mani dei torturatori e aguzzini che gestiscono la tratta degli esseri umani in Libia?
Con il cosiddetto “Decreto Sicurezza Bis” sono previste sanzioni salatissime per chi, avendo salvato delle vite in mare, cerca di portarle in territorio italiano. Chi lo fa rischia o di restare per settimane fuori dalle acque territoriali, fino ad una decisione del Ministero, oppure rischia di pagare una somma elevatissima ed il sequestro e poi la confisca della sua imbarcazione. I pescatori italiani, non attrezzati come le ONG, sono avvisati. Se non vogliono correre rischi mettano da parte i buoni sentimenti.
Hashtag #salvareticosta. Ora quelle due menti sono a riposo, a causa dei noti eventi politici. Nel frattempo però si è accesa in Italia la battaglia per i diritti.
In tanti, persone, associazioni, partiti, sindacati, non si sono arresi alla logica dei decreti e si sono battuti. Alcuni sindaci, pochi e molto coraggiosi, hanno comunque continuato ad iscrivere alla anagrafe le persone richiedenti asilo, sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata del citato articolo 13. Altri non lo hanno fatto perché d’accordo con il governo o semplicemente perché non riuscivano a superare le paure e le perplessità dei loro ufficiali d’anagrafe e non hanno non hanno concesso la residenza.
Ma esistono sempre dei Giudici a Berlino, ed anche a Roma. L’associazione Avvocato di strada Onlus ha impugnato, in molte città italiane, il diniego dei Sindaci di concedere la residenza alle persone richiedenti asilo, sulla base dell’art. 13 del Decreto, vincendo tutte le cause.
In seguito alle prime sentenze, il Ministero dell’Interno ha proposto un reclamo con ricorso al Collegio. Quel ricorso è stato respinto dai Tribunali perché dichiarato inammissibile. Peccato che, in questo caso, le spese legali non le abbia pagate il Ministro, ma noi cittadini. In ogni ricorso presentato, abbiamo scritto che se quella norma si interpretava in maniera costituzionalmente orientata il Sindaco doveva dare la residenza iscrivendo le persone all’anagrafe; se questa interpretazione non veniva condivisa, i Giudici dovevano mandare tutto alla Corte Costituzionale perché a quel punto quella norma sarebbe stata contraria ai principi della nostra Carta Costituzionale e quindi andava abrogata quanto incostituzionale.
Molti Tribunali hanno accolto subito la nostra interpretazione ed hanno ordinato ai Sindaci di iscrivere all’anagrafe i richiedenti asilo. In alcuni casi Giudici hanno anche rimesso alla Corte Costituzionale ed oggi c’è una decisione, dopo un anno e mezzo, in cui anche la Corte Costituzionale stabilisce che in questo paese non si possono scrivere norme irragionevoli e non si possono approvare norme discriminatorie
Un monito a chi quelle leggi le ha approvata nonostante tutti i rilievi esposti anche dal Presidente della Repubblica; un monito a chiunque pensi che in questo paese ci possa essere spazio per razzismo è discriminazione. Oggi il nuovo Governo, consultando questa volta menti illuminate, si propone di rivisitare l’intera normativa in materia di immigrazione e di cambiare molte norme dei Decreti Sicurezza. E’ questo che deve fare la politica, prima che lo rifaccia la Corte Costituzionale.
Antonio Mumolo