Tutele del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo[1]
di Alberto Piccinini
Sommario: 1. Una premessa – 2. Il licenziamento discriminatorio: tutela reale «piena». – 3. Giustificato motivo soggettivo (GMS), giusta causa, licenziamento disciplinare. – 3.1. Nozioni essenziali. – 3.2. Le modifiche apportate dalla riforma. – 4. Il giustificato motivo oggettivo. – 4.1. Situazioni oggettive legate alle condizioni di salute del lavoratore. – Situazioni oggettive legate a motivi economici o organizzativi. – 4.2.1. Nozioni essenziali. – 4.2.2. Manifesta insussistenza: tutela reale. – 5. Le conseguenze del licenziamento illegittimo: il regime sanzionatorio introdotto dal disegno di legge. – 5.1. Le nuove caratteristiche della tutela reale «attenuata» (limiti della condanna al risarcimento del danno in caso di reintegrazione). – 5.2. La nuova tutela obbligatoria: criteri per la determinazione della misura del risarcimento. – 6. Licenziamento illegittimo per vizi di forma e/o di procedura. – 6.1. Le procedure dei CCNL per i licenziamenti disciplinari. – 7. La revoca del licenziamento. – 8. Brevi osservazioni sul regime delle prescrizioni.
1. – Una premessa. – Per quanto concerne il lungo travaglio che ha preceduto il parto dell’art. 18 da parte della cd. Legge Fornero non c’è dubbio che, nello scontro che ha avuto ad oggetto l’attacco alla norma, il testo emerso alla fine del confronto tra le parti sociali sia risultato molto diverso da quello previgente, avendo subìto profonde e sostanziali modifiche proprio sul diritto alla reintegrazione. Anche se va detto che le resistenze che il Governo ha incontrato sulla sua strada (da parte del sindacato nonché di varie forze politiche, presenti e no in Parlamento) non hanno consentito di raggiungere quello che era con ogni probabilità l’obiettivo iniziale: chiudere in maniera netta la porta alla reintegrazione, salvo che in caso di licenziamento «discriminatorio», prevedendo un mero indennizzo per il licenziamento privo di giustificatezza o intimato senza il rispetto di requisiti di forma e/o di procedura.
Se è vero che una soluzione del genere avrebbe voluto dire il raggiungimento della tanto agognata prevalenza della libertà di iniziativa economica privata rispetto alla tutela della stabilità del rapporto di lavoro, pur tuttavia non possiamo nasconderci che il testo finale, nonostante gli sforzi interpretativi oggetto di questo scritto (in parte accolti dalla giurisprudenza nel primo biennio di applicazione), si caratterizza per l’indubbia intenzione di fortemente ridimensionare la sanzione della reintegrazione. Ciò nonostante, come vedremo, grazie anche alle incongrue formulazioni del testo normativo, la giurisprudenza ha, in prevalenza, valorizzato la circostanza dell’immutata modifica delle fonti sostanziali (art. 2119 c.c.; art. 3 legge n. 604/66; art. 2106 c.c.) per respingere soluzioni interpretative irragionevoli.
2. – Il licenziamento discriminatorio: tutela reale «piena». – L’art. 1, comma 42, ha riscritto l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori prevedendo, al nuovo primo comma, che il giudice – con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’art. 3 della l. n. 108/1990, in quanto determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali (come previsto dall’art. 4 della l. n. 604/1966), ovvero dall’adesione o meno ad un’associazione sindacale, dalla partecipazione ad uno sciopero, o intimato a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di «handicap, di età, o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali» (art. 15 Stat. lav., come novellato dapprima dall’art. 13, l. n. 903/1977 e poi dall’art. 4, comma 1, d.lgs. n. 216/2003), oppure perché in concomitanza del matrimonio, o intimato nel periodo dall’inizio della gravidanza al compimento di un anno di età del figlio (e per il diverso previsto periodo in caso di adozione), o a causa della richiesta o fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o basati su un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 cod. civ. – ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore indipendentemente dal motivo formalmente adottato e quale che sia il numero dei dipendenti occupati.
Questa previsione non ha innovato il licenziamento discriminatorio come prima disciplinato nel nostro ordinamento, in quanto l’art. 3 della l. n. 108 prevedeva già espressamente l’applicazione dell’art. 18 Stat. lav. ai licenziamenti di cui agli artt. 4, l. n. 604 e 15 Stat. lav., indipendentemente dalla consistenza dell’organico del datore di lavoro.
Va però detto che l’espresso richiamo alla tutela reale «piena» anche per ipotesi in cui era disposto dalla legge il «solo» ripristino del rapporto e la riammissione in servizio del lavoratore contribuisce a fare chiarezza su questioni prima controverse in ambito di «tutela reale», quali il diritto alla misura minima delle cinque mensilità o all’indennità sostitutiva della reintegrazione (quindici mensilità) per la «lavoratrice madre» licenziata ingiustificatamente: peccato che questo chiarimento, che avrebbe potuto essere la conferma dell’art. 18 come «norma di chiusura» di tutte le fattispecie di illegittimità, sia arrivato il giorno… del suo funerale.
Le nuove disposizioni si affiancano ad un complesso di norme, già presenti nel nostro ordinamento, seppure poco utilizzate dai giuslavoristi (artt. 43 e 44, T.U. sull’immigrazione di cui al d.lgs. n. 286/1998; art. 38, d.lgs. n. 198/2006; d.lgs. n. 215/2003; art. 28 d.lgs. n. 150/2011), che approntano una tutela agile ed incisiva idonea a garantire, senza possibilità di dubbio, anche interventi in materia di occupazione dei lavoratori licenziati.
Il coordinamento tra le normative comporta la soluzione di una serie di questioni dalle importanti conseguenze pratiche. Ci si è posti in particolare il quesito se se per impugnare un licenziamento ritenuto discriminatorio si debba obbligatoriamente utilizzare lo strumento processuale previsto dal rito introdotto dalla legge n. 92/2012 e, in caso affermativo, se possano comunque invocarsi alcune delle (o tutte le) disposizioni della normativa antidiscriminatoria, che prevede particolari agevolazioni nell’onere di provare la discriminazione, la possibilità di ottenere il risarcimenti dei danni extra-patrimoniali senza doverne dimostrare l’ammontare, la sanzione penale in caso di inottemperanza al provvedimento del magistrato.
Parte della dottrina (F. Carinci 2013) ritiene che il soggetto discriminato abbia la possibilità di scegliere uno dei due riti, scelta che però comporta l’impossibilità di trasferire nell’uno i presupposti dell’altro.
Concordano con la sopravvivenza del rito ex art. 28 d.lgs. n. 150/2011, alcuni Autori (Amoroso 2013; Chieco 2013) mentre altri (Bollani 2013; Cester 2013)pensano che il lavoratore che lamenta la discriminatorietà del licenziamento abbia la possibilità di impugnarlo col solo Rito Fornero e senza le agevolazioni previste per l’altro procedimento.
Secondo alcuni la specifica normativa in materia di licenziamenti presupporrebbe l’intenzionalità nella discriminazione in quanto l’art. 3 della legge n. 108/1990 parla di «licenziamento determinato da ragioni discriminatorie» mentre la disciplina generale antidiscriminatoria – al pari di quella relativa al comportamento antisindacale, secondo la lettura della giurisprudenza – fa riferimento al conseguenze oggettivamente pregiudizievoli effetto della condotta (v. ad esempio, l’art. 48 del D.lgs. n. 286/1998, le definizioni di discriminazione propria del Dlgs. n. 198/2006 e del Dlgs. n. 216/2003). Concordano con questa tesi Carinci 2013, Palladini 2012; Zoppoli 2012; Sordi 2012; Terzi 2012)
La tesi è opinabile in quanto il licenziamento oggettivamente discriminatorio va punito in quanto tale, a prescindere dalla motivazione addotta e dalla ardua prova di un animus discriminandi.
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Anche senza arrivare a ritenere la «sostanziale identificazione fra licenziamento discriminatorio e licenziamento ingiustificato» (questo l’approdo di sofisticate e approfondite riflessioni dottrinali: v. M.T. Carinci, 2012, bersaglio di quasi unanime critiche) qualora nel corso del giudizio dovesse risultare – ad esempio – insussistente l’invocato motivo oggettivo, potrebbe essere più agevole ricondurre la motivazione a caratteristiche soggettive non gradite e quindi (forse) a intenti discriminatori.
Sull’equiparazione tra licenziamento discriminatorio e ritorsivo si rammenta un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato precedente la stessa riforma: la Corte di Cassazione aveva ritenuto il licenziamento discriminatorio sancito dall’art. 4 della l. n. 604, dall’art. 15 della l. n. 300 e dall’art. 3 della l. n. 108 suscettibile di interpretazione estensiva, e quindi applicabile anche per sanzionare una ingiusta e arbitraria reazionea comportamenti risultati sgraditi all’imprenditore – seppure sempre quale unica ragione del provvedimento espulsivo – essenzialmente quindi di natura vendicativa (Cass. 18 marzo 2011, n. 6282).
È stato evidenziato che nel richiamo all’art. 1345 cod. civ. non vi siano riferimenti all’avverbio «esclusivamente» contenuto nella norma del codice: considerato che la giurisprudenza precedente la riforma ha preteso l’unicità del «motivo illecito determinante» come requisito di nullità dell’atto del licenziamento, potrebbero aprirsi interessanti spazi di interpretazione su una nuova ipotesi di motivo illecito privo del requisito dell’esclusività.
Tale tesi (sostenuta anche da M.T. Carinci) non ha però trovato accoglimento nella prevalente dottrina (Chieco 2013; Del Punta 2012; Nogler 2012; Pasqualetto 2012; Terzi 2012; Cannati 2012; Sordi 2112).
In giurisprudenza, ad esempio, Trib. Bari 26 novembre 2012 (est. Mastrorilli) e Trib. Bari .1.2013 (est Calia) hanno statuito che la reintegrazione può essere invocata «solo quando il motivo ritorsivo e/o discriminatorio sia stato l’unico determinante, e sempre che il lavoratore ne abbia fornito la prova».
Tra le prime decisioni sul punto, ampio risalto è stato dato a Trib. Bologna 19 novembre 2012 (est. Coco, con note a commento di Ichino e Scarpelli 2013, p. 285; Vallebona 2013, p. 42; Barbieri-Dalfino 2013, p. 137) in un caso in cui era stato invocato sia il motivo illecito sia la ritorsività da una dipendente che aveva rifiutato, in occasione della chiusura del punto vendita a cui era addetta, l’offerta di trasferimento ad altro punto vendita condizionata alla trasformazione del rapporto da tempo parziale a tempo pieno, pena il licenziamento. Il giudice ha accertato l’esistenza di un «tentativo di esercitare, in coincidenza con la chiusura di un punto vendita, una coazione sulla lavoratrice per ottenere l’accettazione di condizioni di lavoro deteriori (l’Aut-Aut posto è oggetto di ammissione…)» e considerato volato l’art. 5 del Dlgs. 61/2000poiché «la manifesta violazione di tale norma integra il motivo illecito nonché il carattere esclusivamente ritorsivo (e come tale discriminatorio: v. Cass. S.L. n. 6282/2011) e quindi la nullità del licenziamento intimato. Conseguentemente, ha ritenuto applicabile «la tutela reintegratoria prevista dal novellato art. 18 co. 1 della legge n. 300/1970 avverso il licenziamento discriminatorio nonché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai senso dell’art. 1345 del codice civile».
Diversamente Trib. Milano 11 marzo 2013 (est. Scarzella) ha escluso l’illiceità di un licenziamento giustificato da riduzione di attività e fatturato, in cui era stata rifiutata la preventiva offerta di accettare una riduzione di orario.
Un’ipotesi di motivo illecito per violazione dell’art. 2112 cod. civ. è stata rinvenuta da Trib. Bologna 27 maggio 2013 (est. Pugliese) nel caso di messa in liquidazione di una società e cessazione dell’attività aziendale ove l’attività economica era stata trasferita ad altra società, con conseguente declaratoria di nullità del licenziamento e reintegrazione ai sensi del primo comma dell’art. 18 in capo alla società cessionaria.
In generale, comunque, si può registrare una maggiore sensibilità da parte della giurisprudenza di merito pronunciatasi in materia di discriminazione, specie per quanto riguarda il concetto di «handicap».
Per quanto concerne, ad esempio, una discriminazione basata sulle condizioni di salute si segnalano Trib. Bologna 30 ottobre 2013 (est. Marchesini) che ha ritenuto che la lombalgia cronica da ernia discale da cui era affetto il lavoratore ricorrente, riconosciuta anche dall’INAIL come malattia professionale indennizzabile, potesse a pieno titolo rientrare nel novero di quelle malattie di lunga durata ed invalidanti, assimilabili al concetto di handicap. Ha richiamato il giudice, a fondamento della propria decisione “la giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia, Navas vs. Eurest Colectivadades SA, C-13705 e allegata sentenza Corte di Giustizia c. repubblica Italiana, c-312-11)” che ricomprende nel concetto di handicap anche quello di malattia “ove quest’ultima sia di lunga durata ed abbia l’attitudine di incidere negativamente sulla vita del lavoratore”. In forza di tali considerazioni, ed “essendo la condizione fisica accertata dal medico competente e dall’Inail l’unico motivo del licenziamento irrogato al lavoratore, questo deve essere dichiarato nullo e discriminatorio” con conseguente reintegra del lavoratore nel posto di lavoro ex art. 18, comma 1 St. lav, indipendentemente dalla sussistenza del requisito dimensionale.
. Analogamente Trib. Milano 11 febbraio 2013 (est. Colosimo) ha ritenuto discriminatorio il licenziamento di una dirigente legato alla comunicazione da parte sua di una grave malattia comportante terapie invalidanti, riconducendolo al concetto di handicap per cui è previsto un espresso divieto di discriminazione, diretta o indiretta (cfr. art. 1 e 2 del Dlgs. n 216 del 2003), mentre Trib. Modena 14 giugno 2013 (est. Vaccari) ha ritenuto ritorsivo perchè intimato a fronte di legittime “azioni a tutela dei propri diritti” il licenziamento di un lavoratore che, affetto da grave malattia, aveva chiesto di essere collocato in altre mansioni, si era rivolto ad un legale e aveva presentato domanda all’INAIL di riconoscimento di malattia professionale.
La Corte d’Appello di Bologna con sentenza 13 luglio 2013 n. 976 (est. Ponterio) ha osservato che, a fronte dell’interpretazione estensiva del divieto di licenziamento discriminatorio – di cui agli artt. 4 l. n. 604/1966, 15 St. Lav., 3 l. n. 108/1990 – pacificamente ammessa dalla giurisprudenza di legittimità ogniqualvolta il licenziamento sia determinato dall’ingiusta e arbitraria reazione e ritorsione del datore di lavoro al legittimo comportamento del lavoratore, il licenziamento ritorsivo connesso al “fattore sesso, cioè quale reazione datoriale al rifiuto della lavoratrice di sottomettersi alle proposte costituenti molestie” sia a pieno titolo riconducibile nell’ipotesi di licenziamento discriminatorio e quindi nullo di cui all’art. 3 l. n. 108/1990, con conseguente diritto della lavoratrice alla reintegra nel posto di lavoro ex art. 18 St. Lav., indipendentemente dalla sussistenza del requisito dimensionale.
3. – Giustificato motivo soggettivo (GMS), giusta causa, licenziamento disciplinare.
3.1. Nozioni essenziali. –
È opportuno preliminarmente operare una breve disamina delle nozioni di giusta causa, GMS e licenziamento disciplinare, alla luce della interpretazione giurisprudenziale precedente la riforma. Occorrerà, infatti, avere ben chiari i singoli aspetti in grado di determinare l’illegittimità del licenziamento, che il giudice deve continuare a tenere presenti anche nella scelta tra applicazione della tutela obbligatoria o cd. “reale” (se tale può ancora definirsi).
Il licenziamento «per giusta causa» (art. 2119 cod. civ.) richiede un comportamento intenzionale del lavoratore incidente sull’elemento fiduciario del rapporto di lavoro, tale da porlo radicalmente in discussione giustificando la risoluzione «in tronco», senza diritto al preavviso.
Il licenziamento per «giustificato motivo soggettivo» (art. 3, l. n. 604/1966) si realizza quando l’inadempimento del lavoratore ai propri obblighi contrattuali sia di tale rilevanza da far ritenere la prosecuzione del rapporto pregiudizievole per il conseguimento degli scopi aziendali. Il licenziamento non priva il lavoratore del diritto al preavviso.
È bene precisare che la differenza tra giusta causa e GMS è di natura meramente quantitativa (non si tratta di violazioni qualitativamente diverse da parte del lavoratore, ma solo di maggiore o minore gravità dei fatti contestati).
Se il lavoratore contesta in giudizio la sussistenza di una giusta causa o di un GMS, il giudice è tenuto ad accertare se il provvedimento di licenziamento è proporzionato, cioè adeguato e non eccessivo, rispetto ai fatti contestati (art. 2106 c.c.). Tale valutazione deve essere effettuata con riferimento alla gravità dei fatti nella loro materialità, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità dell’elemento intenzionale (la giurisprudenza della Cassazione sul punto è univoca e risalente nel tempo).
A questo proposito si devono effettuare due precisazioni.
In primo luogo, è pacifico che il giudice, nella valutazione del caso concreto, resta vincolato solo dalla legge, e cioè dalle nozioni legali di giusta causa (art. 2119 c.c.) e GMS (art. 3, legge 604/66), nonché dal criterio di proporzionalità (art. 2106 c.c.): in altri termini, anche quando è prevista la sanzione del licenziamento in relazione ad un certo comportamento, il giudice può (deve) sempre valutarne la rilevanza e gravità rispetto alle circostanze del caso concreto.
In secondo luogo, fermo restando che il licenziamento deve ritenersi «l’ultima spiaggia» (extrema ratio)laddove nessun altro provvedimento di tipo conservativo può essere considerato adeguato a sanzionare il comportamento del lavoratore, si considera comunemente ammissibile la «conversione» – da parte del giudice – del licenziamento per giusta causa in quello per giustificato motivo soggettivo, se il giudice ritenga il comportamento del lavoratore di minore gravità, ma comunque in grado di giustificare il licenziamento.
Se il licenziamento per giusta causa o GMS è motivato da una condotta colposa o comunque manchevole del lavoratore, esso si qualifica alla stregua di licenziamento disciplinaree resta soggetto alla garanzia procedimentale della contestazione preventiva dell’addebito a norma dell’art. 7, comma 2, dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970).
Al riguardo, qualche breve precisazione è necessaria, in quanto la riforma, come noto, diversifica le conseguenze del licenziamento illegittimo a seconda che l’illegittimità derivi da mancanza di giusta causa o giustificato motivo, oppure da una violazione della procedura.
Il codice disciplinare, contenente le condotte passibili di sanzione e le relative sanzioni, deve essere affisso in luogo accessibile a tutti (art. 7 St. Lav., comma 1). Orbene, tale previsione è dalla giurisprudenza interpretata nel senso di ritenere legittimo il licenziamento fondato su un comportamento che è comunque considerato riprovevole per il sentire comune e per l’ordinamento giuridico (specie in caso di reato) anche se non riconducibile a ipotesi contrattuali. Ciò si spiega in quanto il potere di licenziamento non trova la sua fonte (solo) nel codice disciplinare, bensì principalmente nelle disposizioni di legge (i citati art. 2119 c.c. e art. 3 legge 604/66).
Per poter procedere ad un licenziamento disciplinare il datore di lavoro ha un obbligo di preventiva contestazione scritta del fatto (art. 7 St. Lav., comma 2). In assenza di tale “contestazione disciplinare” il licenziamento è dalla giurisprudenza considerato illegittimo e ciò – prima della riforma – comportava il suo annullamento, come se mancasse la giusta causa o il GMS (su questo la legge Fornero è invece intervenuta in termini molto innovativi). Si precisa che la contestazione disciplinare deve essere sufficientemente precisa e dettagliata, in modo da dare la possibilità al lavoratore di presentare le proprie difese (una contestazione generica è equiparata ad una mancata contestazione).
Il lavoratore ha la possibilità, entro cinque giorni (salve le previsioni più favorevoli previste dai contratti collettivi), di presentare delle proprie giustificazioni scritte, anche tramite un legale o un sindacalista (art. 7 St. Lav., comma 2), nonché orali (art. 7 St. Lav., comma 3), essendo però in quest’ultimo caso opportuno avvalersi della possibilità di farsi assistere da un rappresentante sindacale.
La sanzione disciplinare (perfino quella più grave, del licenziamento) non può essere irrogata prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione dei fatti al lavoratore. Il termine di cinque giorni deve essere rispettato anche in caso di licenziamento per giusta causa, salva per il datore la facoltà di adottare immediatamente un provvedimento di sospensione cautelare del lavoratore, ove si ritenga che la sua mancanza sia tale da non consentire l’ulteriore presenza nel luogo di lavoro.
Accanto alle previsioni garantistiche dell’art. 7 St. Lav. la giurisprudenza ha introdotto delle ulteriori tutele per il lavoratore che subisce un procedimento disciplinare.
In primo luogo, è pacifico che, per tutelare e rendere effettivo il diritto di difesa del lavoratore, sia la contestazione che l’irrogazione del vero e proprio provvedimento debbano essere “tempestive” rispetto ai fatti contestati (entro un termine ragionevole). Tale principio di immediatezza(o tempestività) deve peraltro essere inteso in senso relativo, cioè avendo riguardo alla necessità, specie nell’ipotesi di indagini difficili e complesse, di un’adeguata ricostruzione e valutazione della condotta del lavoratore, purché, però, il ritardo non diventi pretesto per un comportamento in violazione dei principi di buona fede.
I contratti collettivi possono prevedere dei termini precisi per l’irrogazione del procedimento disciplinare, il cui mancato rispetto comporta un vizio (formale) del licenziamento.
In secondo luogo, è altrettanto pacifico che i motivi di licenziamento esplicitati sia nella contestazione disciplinare che nella lettera di licenziamento non possono essere – oltre che generici – successivamente modificati: le ulteriori allegazioni del datore di lavoro, ad esempio emerse in corso di processo, sono pertanto del tutto irrilevanti (se non in quanto circostanze meramente confermative).
3.2. – Le modifiche apportate dalla Legge Fornero. –
Va premesso che i criteri applicativi della legge ora ricordati devono restare punto di riferimento nelle decisioni dei giudici. Quello che cambia è la loro incidenza per le conseguenze sanzionatorie, e cioè – innanzi tutto – se, ad esempio, il criterio di proporzionalità (art. 2106 c.c.) possa costituire un parametro anche per la decisione se applicare o meno la reintegrazione ovvero solo per stabilire la misura dell’indennità risarcitoria.
Prima della riforma l’accertamento di un vizio di forma/procedura dava sempre luogo, al di sopra dei requisiti dimensionali dell’art. 18, alla tutela reintegratoria, rendendo superflua una successiva verifica sul merito. Con l’entrata in vigore della l. n. 92/2012 le sanzioni vengono differenziate in relazione al tipo di illegittimità rilevata (vizio di forma/procedura o di giustificazione), imponendo agli operatori giuridici un approccio radicalmente diverso.
L’illegittimità del licenziamento, al di fuori delle ipotesi di discriminazione di cui al comma 1, può dar luogo all’applicazione della tutela reintegratoria «attenuata» (comma 4), della tutela obbligatoria «forte» (comma 5) e della tutela obbligatoria «debole» (comma 6).
In particolare la tutela reale «attenuata» e le condanne accessorie previste dal comma 4 del nuovo art. 18 per l’ipotesi di accertata mancanza di giustificato motivo soggettivo o di giusta causa si applicano in due ipotesi: 1) «insussistenza del fatto contestato»; 2) «il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili».
A) «Insussistenza del fatto contestato».
Nel momento in cui è uscita la legge Fornero era già evidente la necessità di contrastare un’interpretazione letterale – proposta da alcuni autori e poi fatta propria da numerosi altri – secondo cui la reintegrazione dovrebbe essere applicabile solo se i motivi concreti addotti dal datore di lavoro quale giusta causa o GMS sono materialmente inesistenti (insussistenza del fatto storico): in altri termini al (solo) caso in cui il datore di lavoro abbia imputato al/alla dipendente una mancanza che non è stata da lui/lei commessa (Maresca 2012).
Negli altri, in cui la mancanza risulti effettivamente commessa dalla persona che ne è stata imputata, ma sia ritenuta dal giudice non così grave da giustificare il licenziamento (oppure il licenziamento sia ritenuto viziato da un difetto di immediatezza), sussistendo comunque una colpa del lavoratore, la sanzione dovrebbe essere di natura soltanto pecuniaria (Ichino, p. 2012).
Da parte nostra si proponeva, invece, una diversa interpretazione del testo di legge,partendo dalla considerazione che in una prima versione del disegno di legge il giudice avrebbe potuto ordinare la reintegra solo dopo aver accertato che il lavoratore «non ha commesso» il fatto contestato, oppure che «il fatto non sussiste»: cioè – in questo caso sì – se non esiste, è del tutto inventato. La formulazione definitiva della l. n. 92/2012 (che parla di «insussistenza del fatto») pare invece lasciare aperta la porta ad una valutazione giudiziale dei fatti addebitati al lavoratore nel loro contesto: si suggeriva quindi una valutazione della rilevanza giuridica degli stessi (insussistenza del fatto giuridico), non escludendo che essi si siano verificati, ma lasciando al giudice la possibilità di valutarne la portata, cioè la gravità, in termini di rottura del legame fiduciario.
Si cercava conferma anche nel confronto con la disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (GMO), sanzionato, in caso di illegittimità, con la (mera) tutela obbligatoria, salvo che in caso di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo». È del tutto evidente che il legislatore per «manifesta insussistenza» non intende «manifesta inesistenza storica», quanto piuttosto «palese irrilevanza o inconsistenza» dei fatti posti dal datore di lavoro alla base di licenziamento, a meno che si voglia giungere all’assurdo di ritenere che un fatto possa essere inesistente e manifestamente inesistente! Orbene, dato che all’interno di una stessa norma (il nuovo art. 18) non si possono attribuire due significati diversi allo stesso termine, è inevitabile concludere che, anche nel caso del licenziamento per GMS o per giusta causa (comma 4), il giudice, se accerta l’irrilevanza e/o inconsistenza dei fatti posti alla base del licenziamento, dovrà disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
«Insussistenza», quindi, non nel senso di inesistenza bensì di inconsistenza dei fatti contestati alla luce delle circostanze di tempo e di luogo, ovvero di altro riferimento al caso concreto che il giudice ritiene rilevante nella valutazione del comportamento del lavoratore (ai sensi degli artt. 3 legge n. 604/1966 e 2119 cod. civ. – oltre che, come vedremo sub B – dell’art. 2106 cod. civ. che – come già osservato – resta pur sempre la norma chiave in tema di licenziamento disciplinare).
È stata una decisione del Tribunale di Bologna (est. Marchesini) a mettere a fuoco il tema – essenziale, per capire se la reintegrazione doveva essere destinata a sanzione veramente residuale – al quale si è fatto cenno, divenuto oggetto di un serratissimo confronto dottrinale e giurisprudenziale.
Ci si riferisce al caso di un dipendente che, nel corso di una corrispondenza via mail con un collega in replica ad una sua pretesa (espressa anche con toni arroganti) di avere un determinato risultato in tempi brevissimiaveva espresso il seguente commento: “parlare di pianificazione nel gruppo … è come parlare di psicologia con un maiale”. Il “fatto fatto storico” in tale caso era pacifico, addirittura documentale, ma altrettanto evidente era la lievità della (eventuale) mancanza, concretizzatasi nell’esercizio di un diritto di critica (si potrebbe dire, “diritto di ironia”).
La “ormai nota e capofila Trib. Bologna 15 ottobre 2012” (così la definisce Biasi, 2013; la commentano F. Carinci 2012; Tursi, 2012; M.T. Carinci, 2012; De Luca Tamajo 2012; Romei 2012; Fabbri, 2013; Dimartino, 2013; diritto24.ilsole24ore.com) ha ritenuto che la valutazione sull’esistenza o inesistenza del fatto debba riferirsi al “fatto giuridico… inteso come il fatto globalmente accertato, nell’unicum della sua componente oggettiva e nella sua componente inerente l’elemento soggettivo” (l’ordinanza ha ricondotto la fattispecie anche alla violazione di una disposizione del CCNL – lieve insubordinazione – che prevedeva una sanzione conservativa): altrimenti ragionando si dovrebbe applicare la sanzione indennitaria persino in casi di comportamenti privi dell’elemento di coscienza e volontà dell’evento. La sentenza è stata confermata dallo stesso giudice con sentenza 16 gennaio 2013 e dalla Corte d’Appello di Bologna con sentenza 23 aprile 2014, che ha però limitato la sua indagine alla riconducibilità a disposizioni del CCNL che prevedevano provvedimenti conservativi.
Hanno condiviso tale impostazione Trib. Ancona 26 novembre 2012 (est. Sbano); Trib. Milano 28 novembre 2012 (est. Casella); Trib. Milano 18 dicembre 2012 (est. Scarzella, che ha confermato l’ordinanza con sentenza 17 maggio 2013); Trib. Milano 28 gennaio 2013 (est. Lualdi); Trib. Trento 29 gennaio 2013 (dott. Flaim) che ritiene insussistente il fatto in ragione degli elementi che avevano qualificato la condotta del lavoratore, tali da rendere giustificata l’assenza considerata ingiustificata; Trib. Milano 30 gennaio 2013 (est. Gasparini) che esclude “la sussistenza del fatto contestato dal punto di vista dell’elemento oggettivo e soggettivo”; Trib. Ravenna 18 marzo 2013 (est. Riverso) che ha ribadito la necessità, per il giudice, di valutare il fatto “nella pienezza dei suoi elementi costitutivi (sia l’elemento oggettivo sia l’elemento soggettivo) … alla luce della nozione di giusta causa valevole nella fattispecie considerata”; Trib. Messina 25 marzo 2013 (est. Di Bella); Trib Roma 4 aprile 2013 (est. Cosentino); Trib. Trieste 15 aprile 2013 (est. Multari); Trib. Palmi 24 aprile 2013 che mette in rilievo come la legge parli di “fatto contestato”, aggiungendo che “ciò che viene contestato non è mai semplicemente un dato meramente materiale, senza contesto, bensì un comportamento valutato nella sua valenza disciplinare e collocato in un preciso contesto. (…). Non si dà un dato puramente fenomenologico impermeabile a qualsivoglia profilo valutativo. È un’illusione che porta a risultati iniqui e incongrui quella di porsi alla ricerca di fatti da cogliere nella loro nuda storicità, decontestualizzati e depurati da qualsivoglia prospettiva valutativa”; Trib. Taranto 3 giugno 2013 (est. Magazzino) che, dopo aver dichiarato che il fatto contestato deve intendersi non come fatto materiale ma come fatto giuridico, evidenzia come sarebbe paradossale considerare rilevante “una condotta del tutto lecita, niente affatto inadempiente o addirittura doverosa del lavoratore” solo perché non prevista tra le condotte sanzionate con un provvedimento conservativo; Trib. Bologna 2 ottobre 2013 (est. Marchesini); Trib. Bologna 24 luglio 2013 (est. Benassi) che ritiene applicabile la reintegrazione in ipotesi di inadempimento di scarsa importanza “non essendo possibile configurare un’ipotesi astratta di giusta causa o giustificato motivo” anche se considera applicabile la tutela risarcitoria qualora vi sia violazione del criterio di proporzionalità “in presenza di inadempimento di non scarsa rilevanza” (i confini tra le due fattispecie di licenziamento illegittimo appaiono difficilmente individuabili, in quanto il notevole inadempimento potrebbe addirittura giustificare il recesso) . Persino la Corte di Cassazione, con sentenza 7 maggio 2013, n. 10550, richiamando la legge 92/2012 afferma che il giudice di merito “dovrà applicare uno dei possibili sistemi sanzionatori conseguenti alla qualificazione del fatto (giuridico) che ha determinato il provvedimento espulsivo”.
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Riteniamo che possano rientrare nel concetto di «insussistenza del fatto» anche dei vizi del provvedimento apparentemente solo di carattere «formale-procedurale», come nel caso in cui nella contestazione disciplinare non venga esplicitato quali sono i fatti addebitati al lavoratore in termini tempestivi e in modo chiaro e preciso. Invero detti vizi si ripercuotono sulla sostanza del licenziamento, poiché posti a presidio dell’esercizio del diritto di difesa.
A.1) Immediatezza/tempestività: si è rilevato, sin dall’entrata in vigore della legge Fornero, come il ritardo nella contestazione sia contrario a buona fede e correttezza (il lavoratore ha il legittimo affidamento che il suo comportamento sia stato corretto) e, in definitiva, faccia venir meno l’interesse in concreto all’esercizio del potere disciplinare in relazione ad una determinata condotta. Ne consegue, a nostro avviso, che un fatto particolarmente grave (e in effetti accaduto e pertanto storicamente «sussistente»), «riesumato» in una contestazione disciplinare a distanza eccessiva di tempo sia da ritenersi insussistente ai sensi del comma 4 del nuovo art. 18, perché privo di rilevanza giuridica, con conseguente diritto alla reintegrazione.
Il principio per cui la violazione dei principi di immediatezza si riflette nella inesistenza causale e non può essere ascritta ad una violazione procedurale ha trovato consensi in dottrina (Speziale 2012 e 2013; Pisani 2013; Barbieri 2013; Galardi 2013) e in giurisprudenza (Trib. Milano 27 aprile 2013, est. Cipolla), mente altre decisioni hanno ricondotto tale vizio a quelli procedurali, con le conseguenze sanzionatorie di cui al comma 6 dell’art. 18 (indennità risarcitoria da 6 a 12 mensilità), salva ovviamente una valutazione di merito sull’illegittimità del recesso, con ogni conseguenza di legge (Trib. Ancona 26 novembre 2012 , est. Sbano e Trib. Santa Maria Capua Vetere 2 aprile 2013)
A.b) Specificità: si ritiene che il giudice non potrà esimersi dal valutare se la gravità del vizio di genericità sia tale da ripercuotersi sulla sostanza del licenziamento. In altri termini, a fronte di una motivazione talmente generica da impedire al lavoratore di esercitare il diritto di difesa rispetto ai fatti addebitati, questi ultimi non potranno che essere considerati insussistenti. Eventuali fatti allegati successivamente, anche nel corso del giudizio, stante il principio di immutabilità dei motivi di licenziamento, non potranno peraltro esser presi in considerazione, in quanto (alla luce dei nuovi parametri) privi di sussistenza giuridica.
B) «Il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni (della legge) dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili».
Quando erano ancora fresche le polemiche che avevano alimentato il contrastato parto del testo normativo, si era dato rilievo al fatto che le parole «della legge», contenute nel testo iniziale del disegno di legge presentato al Parlamento, erano state soppresse a seguito di un emendamento proposto da entrambi i relatori al Senato (on. Treu del PD e on. Castro del PdL) e recepito dal Governo. Alla Camera il testo era rimasto invariato. Ci si era preoccupati delle ragioni per cui Confindustria aveva chiesto e ottenuto l’emendamento: il timore che il richiamo alle «previsioni della legge» potesse aprire maggiori possibilità per il giudice di ordinare la reintegra in caso di licenziamento illegittimo per sproporzione tra i fatti contestati e il provvedimento del datore.
Tale timore può ora ritenersi infondato, grazie al ragionevole orientamento assunto dalla prevalente giurisprudenza nel primo biennio di applicazione della legge che ha appunto, come vedremo, confermato la perdurante facoltà di applicare l’art. 2016 cod. civ. nelle diverse fattispecie.
Con la formulazione definitiva della l. n. 92/2012, oltre che nell’ipotesi di «insussistenza del fatto», la sanzione della reintegrazione dovrebbe essere applicabile (solo?) al caso in cui il licenziamento sia riferito ad una condotta per la quale il contratto collettivo o il codice disciplinare prevedano espressamente l’applicazione di una sanzione conservativa (richiamo orale o scritto, multa, sospensione).
L’ipotesi che un datore di lavoro commetta un errore così grossolano fa ritenere inverosimile il suo verificarsi e quindi apparentemente impraticabile la norma se applicata nel suo solo significato letterale. Vanno comunque valorizzate (ed imitate, in termini ancora più espliciti, nei prossimi rinnovi contrattuali) clausole quali quelle previste, ad esempio, dall’art. 9, lett. l) Sezione Quarta, Titolo VII, del CCNL Addetti all’industria metalmeccanica privata, che comminano una sanzione conservativa in quelle ipotesi in cui il lavoratore «in altro modo trasgredisca l’osservanza del presente contratto o commetta qualsiasi mancanza che porti pregiudizio alla disciplina, alla morale, all’igiene e alla sicurezza dello stabilimento» (in termini pressoché analoghi l’art. 32 CCNL Logistica, ritenuto applicabile ad un caso di presunta rissa da Trib. Bologna 22 marzo 2013, est. Sorgi) . Potrà infatti agevolmente sostenersi che le disposizioni dei CCNL che prevedono condotte descritte in termini ampi e generici (quali «in altro modo trasgredisca l’osservanza del presente contratto») sono norme di chiusura che attribuiscono espressamente al giudice la facoltà di valutare il livello di trasgressione del CCNL attraverso una comparazione tra le diverse disposizioni contrattuali.
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Ma il nodo cruciale su cui si è giustamente concentrata l’attenzione degli interpreti riguarda, appunto, gli eventuali limiti ai poteri sanzionatori del giudice nell’ipotesi in cui i contratti collettivi non prevedano espressamente sanzioni conservative per determinati comportamenti di lieve entità per i quali il licenziamento appare comunque un provvedimento palesemente sproporzionato. Esso è stato in parte affrontato quando si è dissertato sul «fatto giuridico» e «fatto materiale (o storico)».
Da parte nostra si è sempre sostenuto che le «previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili» non possano essere esaustive e debbano considerarsi un mero parametro per valutare l’addebito ai fini della reintegra, proprio in applicazione del criterio codicistico di proporzionalità di cui all’art. 2106 cod. civ. che – come ricordato – impone una valutazione della gravità del fatto contestato in relazione alle circostanze del caso concreto. Depongono a favore di questa interpretazione anche i lavori parlamentari, giacché non è stato accolto l’emendamento del Governo al Senato nella parte in cui intendeva sostituire la parola «previsioni» con «tipizzazioni», al fine di vincolare in maniera assai più stringente il sindacato del giudice. D’altra parte, secondo il terzo comma dell’art. 30 della l. n. 183/2010 (cd. “collegato lavoro”), non modificato sul punto dalla l. n. 92/2012, il giudice deve (solo) tener conto delle «tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro» e quindi ben potrà utilizzare le medesime come mero criterio di riferimento.
Se si precludesse al giudice una simile possibilità si creerebbe una situazione paradossale: dal momento che i contratti collettivi non potranno mai avere una tipizzazione completa di tutte le condotte umane, specie quelle di lieve gravità, potrebbe darsi che, proprio in relazione a queste ultime, un datore di lavoro intimi consapevolmente un licenziamento ingiustificato motivandolo con una sciocchezza, per sottrarsi alla reintegrazione. Si pensi ad una contestazione disciplinare di questo tipo: «Lei ha rivolto al Suo superiore gerarchico uno sguardo ironico e beffardo, facendo in tal modo venire meno l’elemento fiduciario…». Dando per scontato che, in questo caso, la «mancanza» sia stata effettivamente commessa (e quindi che, nella accezione letterale, vi sia la «sussistenza del fatto»), non trovandosi alcun CCNL che sanzioni una simile condotta con un provvedimento conservativo, se ne dovrebbe dedurre che il giudice, una volta dichiarato illegittimo e ingiustificato il licenziamento, non possa disporre la reintegrazione!
Una soluzione del genere sarebbe ingiusta e irragionevole, oltre che in contrasto con le norme di legge che, al pari dell’art. 2106 cod. civ., il giudice è tenuto ad applicare: l’art. 3 della l. n. 604/1966, che richieda il requisito della «nocevolezza» dell’inadempimento contrattuale legittimante il recesso, e l’art. 2119 cod. civ. che impone una valutazione della gravità della causa impeditiva della prosecuzione del rapporto di lavoro.
Si era quindi sostenuto che, pertanto, non sia mai precluso al giudice di applicare la tutela reale in conseguenza di un accertamento di non proporzionalità del licenziamento nel caso in cui non sia prevista una specifica sanzione conservativa per un determinato addebito. Ciò, a maggior ragione, a fronte delle previsioni dei «codici disciplinari applicabili» che non hanno natura contrattuale e possono essere stati elaborati unilateralmente dal datore di lavoro: non si vede proprio come in tali ipotesi possa impedirsi un intervento del magistrato ove le previsioni non dovessero corrispondere a criteri equi.
Tale tesi ha trovato ampi consensi in dottrinae, soprattutto, in giurisprudenza, attraverso una interpretazione estensiva di gravità delle disposizioni contrattuali, utilizzando una valutazione di proporzionalità: cfr. Trib. Roma 14 gennaio 2013 (est. Valle); Trib. Milano 28 gennaio 2013 (est. Lualdi), che, rispetto ad una disposizione del CCNL applicabile, osserva: “pur non richiamando espressamente ipotesi e fattispecie circostanziate a cui collegare la sanzione del licenziamento per giusta causa, prevede l’irrogazione del licenziamento quale sanzione ultima rispetto a quelle irrogate per le precedenti violazioni, secondo un evidente criterio di proporzionalità”; Trib. Milano 1 marzo 2013 (est. Scarzella); Trib. Bologna 4 marzo 2013 (est. Marchesini) che deduce, dal fatto che il CCNL prevede la sanzione del licenziamento unicamente per assenze ingiustificate superiori a gg. 4, “una previsione implicita di sanzioni conservative per illeciti disciplinari meno gravi e rilevanti, quale quello effettivamente commesso dl lavoratore”; Trib. Ravenna 18 marzo 2013 (est. Riverso) che ha ribadito “la perdurante applicazione del principio di proporzionalità, che ancora mantiene un ruolo fondamentale in materia” evidenziando che “per disposizione della legge il giudice applica la reintegra quando il fatto tipico è punito lievemente (da contratti collettivi ovvero da codici disciplinari). È corretto inoltre ritenere che lo stesso criterio, per identità di ratio, il giudice debba applicare quando il fatto tipico esista ma non sia in concreto grave in assenza di una qualsiasi tipizzazione come ipotesi di illecito”; Trib. Milano 20 marzo 2013 (est. Scarzella); Trib. Roma 4 aprile 2013 (est. Cosentino) che, ribadendo il ruolo fondamentale del principio di proporzionalità, ritiene applicabile la reintegrazione in presenza di un “fatto lieve” anche se non previsto dal contratto collettivo come punibile con sanzione conservativa; Trib. Taranto 3 giugno 2013 (est. Magazzino) secondo cui “in assenza di codice disciplinare ed in mancanza, nel contratto collettivo, di una gradazione di condotte inadempienti e di sanzioni occorre nondimeno ipotizzare una scala similare (ad opera del giudice, che dovrà distinguere tra condotte inadempienti che sarebbero astrattamente passibili di licenziamento disciplinare e condotte, per inadempimenti ma meno gravi, che sono astrattamente passibili solo di sanzioni conservative.
Né deve ritenersi che in tal modo si ponga in essere una vietata interpretazione analogica del contratto collettivo (così Del Punta 2013). Invero si è piuttosto di fronte a una mera “utilizzazione estensiva” dei codici disciplinari previsti dai contratti collettivi (Speziale 2013), vale a dire ad un utilizzo, da parte dei giudici, delle norme contrattuali come mero parametro di riferimento della gravità della condotta, in applicazione di norme di legge esistenti quali gli artt. 3 l. n. 604/1966; 2119 cod. civ. 2016 cod. civ.
C) «Le altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa».
A norma del comma 5 del nuovo art. 18, «il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa» applica la tutela obbligatoria «forte»: dichiara risolto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità della retribuzione globale di fatto, secondo i criteri di cui si parlerà in seguito.
L’individuazione di tali «altre ipotesi» dipende, in effetti, dal significato attribuito al comma 4 della norma, di cui si è parlato alle lettere A) e B) del paragrafo che precede. In particolare, il comma 5 citato può essere un contenitore stretto o ampio: stretto se si accoglie l’interpretazione fino ad ora proposta in merito alle conseguenze (annullamento del licenziamento e condanna alla reintegra, seppure in forma attenuata) sul fatto giuridico in contrapposizione al fatto materiale e sulla violazione del canone di proporzionalità di cui all’art. 2106 cod. civ.; ampio se si accoglie l’interpretazione letterale per quanto concerne il concetto di «insussistenza del fatto» e se si ritengono tassative le ipotesi contrattuali che prevedono sanzioni conservative, oltre che se si considera la violazione dei canoni di tempestività e/o di specificità sanzionabile con la mera tutela obbligatoria.
È ancora presto per tirare un bilancio definitivo sul punto di approdo della giurisprudenza rispetto a queste cruciali tematiche: nel primo caso la tutela reintegratoria continuerebbe ad essere la principale e generale sanzione per il licenziamento disciplinare illegittimo, nonostante il rammarico di chi evidenzia come ciò sia lontano dall’intentio originaria del Legislatore. Occorrerà rassegnarsi al fatto che detto risultato è «largamente ascrivibile alla laconicità del nuovo testo normativo» (Biasi 2013) ; nel secondo caso il medesimo ruolo di «sanzione tipo» sarebbe invece effettivamente assolto dalla tutela indennitaria di cui al comma 5.
4. – Il giustificato motivo oggettivo
4.1. Situazioni oggettive legate alle condizioni di salute del lavoratore.
Il confronto tra il Governo e le parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro ha visto nella modifica della disciplina del licenziamento per ragioni economiche o organizzative – meglio conosciuto come licenziamento per giustificato motivo oggettivo (GMO) – il suo epicentro. Sul punto, in particolare, sembrava proprio che il Governo non intendesse arretrare di un passo rispetto all’idea di dover sanzionare l’insussistenza del motivo oggettivo addotto dal datore con la sola indennità. A ragione, quindi, la CGIL ha insistito per non rinunciare alla sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro (oltre a quelle accessorie previste dalla legge) anche in relazione a tale fattispecie, sebbene la «marcia indietro» effettuata sul punto dal Governo sia solo parziale e – come si vedrà – dagli effetti limitati.
Il nuovo comma 7 dell’art. 18 prevede tre diverse conseguenze a fronte di un licenziamento ingiustificato: una di applicabilità automatica della tutela reintegratoria, seppur nella forma «attenuata»; una di applicabilità eventuale della reintegra, lasciata – apparentemente – alla discrezionalità del giudice; una, infine, in cui è prevista la sola tutela obbligatoria.
Il comma esordisce «affrancando» talune ipotesi dalla disciplina introdotta per il giustificato motivo oggettivo, che di certo non rientravano nel piano di riduzione dei costi per il datore di lavoro in caso di «licenziamento economico» e per le quali l’esclusione del diritto alla reintegra sarebbe risultata scandalosa. Si tratta di casi tradizionalmente ricompresi nella categoria del giustificato motivo oggettivo, in cui il licenziamento è afferente alla situazione personale del lavoratore (in particolare alle sue condizioni di salute), pur derivando il motivo «immediato» della soppressione del posto di lavoro da esigenze di funzionamento dell’organizzazione produttiva. In altri termini, si tratta di casi in cui il giudice è chiamato ad effettuare un delicato bilanciamento tra valori costituzionalmente protetti: il diritto alla salute ed il diritto al lavoro, da un lato, ed il diritto all’iniziativa economica, dall’altro. Specie ove il pregiudizio sia riconducibile all’ambiente lavorativo, il legislatore stesso ritiene ancora meritevoli della «tutela reale», sempre ove il recesso sia considerato ingiustificato, le situazioni:
a) di lavoratori che diventano inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia o, comunque, se sono divenuti inabili a causa dell’inadempimento da parte del datore di lavoro, accertato in giudizio, delle norme in materia di sicurezza ed igiene del lavoro (art. 4, comma 4, l. n. 68/1999);
b) di disabili obbligatoriamente assunti, in caso di aggravamento o di variazioni dell’organizzazione del lavoro, sia ove gli stessi abbiano chiesto l’accertamento della compatibilità delle mansioni affidate con le proprie condizioni di salute, sia ove il datore di lavoro abbia ritenuto di non poterli più utilizzare in azienda, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro (art. 10, comma 3, l. n. 68);
c) di controversie sul superamento del periodo massimo di conservazione del posto in caso di malattia (art. 2110, comma 2, cod. civ.).
Il giudice, in questi casi, obbligatoriamente «applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo», e cioè annulla il licenziamento, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore e lo condanna al pagamento di un’indennità corrispondente alle retribuzioni perdute (non a causa di sua negligenza) e comunque non superiore a dodici mensilità.
4.2. – Situazioni oggettive legate a motivi economici o organizzativi.
Prosegue poi il settimo comma: [il giudice] «Può altresì applicare la predetta disciplina nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».
Va innanzi tutto sottolineato che, su questo specifico punto, al giudice viene apparentemente riconosciuto un ampio potere discrezionale, in controtendenza rispetto all’impostazione del precedente Governo (si pensi all’art. 30 della l. n. 183/2010, peraltro inutilmente «rafforzato» dall’art. 1, comma 43, della legge): l’uso del verbo «potere» sembrerebbe infatti attribuire una mera facoltà di disporre la reintegrazione. È quanto, del resto, l’allora presidente del Consiglio Monti aveva confermato in data 8 aprile 2012 in replica al Wall Street Journal: «Per il motivo economico non è più previsto il reintegro. Solo nel caso in cui il reintegro sia considerato manifestamente insussistente il giudice può, non deve, come chiedevano il PD e certi sindacati, decidere per il reintegro».
La reintegrazione, dunque, appare prevista come eventualità, e nelle sole ipotesi di «manifesta insussistenza» del fatto posto a fondamento del licenziamento, anche se non sono mancate opinioni secondo cui la disposizione dovrebbe essere letta ed interpretata non come “può” ma come “deve”:
– in dottrina: Palladini 2012; Perulli 2012; Maresca 2012; Sordi 2012; Colosimo 2012; Santoro Passarelli 2013; Carinci 2013, che in realtà si limita a prevedere che verrà letta in tal senso) pena la sua incostituzionalità;
– in giurisprudenza: Trib. Foggia 11 settembre 2012, invocando le disposizioni costituzionali a tutela del lavoro, afferma che “l’apparente discrezionalità del Giudice, sottesa al predicato verbale utilizzato dalla normativa ordinaria “può”, non consente affatto al Giudice di individuare un rimedio alternativo alla reintegrazione del lavoratore nel precedente posto di lavoro, trattandosi questa, infatti, della soluzione ideale a cui tende la Carta Costituzionale e a cui, conseguentemente, deve essere vincolato il Giudice in mancanza di chiare e precise indicazioni di segno opposto da parte del Legislatore”. Conformi: Trib. Rieti 2 gennaio 2013; Trib. Varese 4 settembre 2013; Trib. Roma (Est. Sordi) 19 marzo 2014. A conclusioni pratiche identiche perviene Trib. Reggio Calabria 3 giugno 2013 (est. Morabito) che, pur ritenendo che la legge conservi la possibilità al giudice di scegliere tra la tutela reintegratoria ed indennitaria, considera il giudice stesso vincolato ai principi dettati dall’ordinamento e quindi che “il ristoro del diritto leso debba avvenire – ove possibile e non eccessivamente oneroso per il debitore – in forma specifica, per la regola generale dettata in materia dall’art. 2058 cod. civ., regola che per il diritto del prestatore di lavoro è stata ribadita da Cass. Sez. Unite n. 141 del 2006 (che ha sanzionato la sostanziale espropriazione dei diritti ove il ristoro per la violazione si riducesse in via di regola ad una somma)”
La norma nel suo complesso apre comunqueinteressanti scenari sui poteri del magistrato, chiamato ad una valutazione – seppure di verità – sulle scelte imprenditoriali poste in essere.
L’aggettivo che dovrebbe caratterizzare l’insussistenza («manifesta») desta molte perplessità: quando ci si propone (in buona fede) di scongiurare gli abusi non si può pretendere che chi pone in essere una condotta illegittima lo faccia in modo manifesto. Gli imprenditori furbi che decideranno di ricorrere a tale causale per liberarsi di un dipendente sgradito si guarderanno bene dal confessarlo, e conseguentemente cercheranno di nascondere e mascherare l’illegittimità della propria condotta. In altre parole di renderla occulta e non manifesta.
L’espressione – ritenuta da alcuni “ridondante ed enfatica” ovvero “un infortunio linguistico” ovvero “un’endiadi” (v. Speziale 2013) – è stata interpretata nel senso che l’insussistenza del motivo addotto debba essere evidente innanzi tutto sotto il profilo probatorio (cfr. Trib. Latina 29 gennaio 2013, est. Papetti; Trib. Milano 11 marzo 2013, est. Perillo, che l’ha automaticamente dedotta dalla contumacia in giudizio del datore di lavoro) fermo restando che, ovviamente, occorre prima chiarirsi sul concetto di insussistenza sotto il profilo sostanziale.
A tal fine è utile richiamare brevemente le direttrici lungo cui si è snodato, prima della Legge Fornero,il controllo giurisdizionale in tema di licenziamento per GMO secondo l’orientamento della Corte di Cassazione, al fine di valutare in quali casi – oggi – può essere ancora disposta la reintegra.
4.2.1. – Nozioni essenziali.
Va premesso che, in linea di principio, in tema di GMO, il giudice può effettuare un controllo di legittimità, e non di merito, con riguardo all’esercizio del potere di licenziamento (vd. art. 30, l. n. 183/2010). Al giudice non è consentito, in altri termini, di indagare l’opportunità della scelta, al fine di non travalicare le prerogative attribuite al datore di lavoro circa l’organizzazione dell’impresa. Affinché, tuttavia, il controllo non si risolva in una verifica meramente formale del potere datoriale, il controllo di legittimità può investire, entro certi limiti, le finalità della scelta organizzativa: è stato, ad esempio, ritenuto ingiustificato il licenziamento per soppressione del posto se meramente strumentale ad un incremento di profitto, dovendo essere diretto a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti che influiscano in modo decisivo sulla normale attività produttiva e impongano una effettiva necessità di riduzione dei costi (Cass. 12 settembre 2013, n. 20918; Cass. 9 luglio 2012, n. 11465; Cass. 18 aprile 2012, n. 6026; Cass. 23 febbraio 2012, n. 2712; Cass. 26 settembre 2011, n. 19616; Cass. 6 luglio 2005, n. 14215).
Come noto, inoltre, tale controllo di legittimità del licenziamento per ragioni economiche o organizzative verte sui seguenti aspetti:
a) l’effettività delle esigenze aziendali richiamate nella motivazione del licenziamento, ferma restando l’insindacabilità, sotto il profilo della congruità ed opportunità, della scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto di lavoro; la sussistenza di un preciso nesso di causalità tra le esigenze di riorganizzazione ed il licenziamento di quella specifica persona: in altri termini la prestazione deve risultare inutilizzabile oggettivamente, a causa della diversa organizzazione che viene introdotta, «e non quindi in forza di un atto del datore che presenti margini di arbitrarietà, da determinare, con stretto nesso di consequenzialità, l’inuti-lizzabilità della posizione lavorativa considerata» (Cass. 6 luglio 2005, n. 14215);
b) l’impossibilità d’un diverso impiego in azienda: l’obbligo di repechage è un principio assolutamente acquisito, non solo su mansioni equivalenti: si è infatti ritenuto che il datore di lavoro debba aver prospettato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel bagaglio professionale del dipendente, purché tali mansioni siano compatibili con l’assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall’imprenditore (Cass. 1° luglio 2011, n. 14517). Fermo restando l’onere della prova in capo al datore di provare l’impossibilità di ricollocare diversamente il dipendente licenziato (Cass. 15258/2012; Cass. n. 19616/2011; Cass. n. 12769/2005) si ritiene però che sussista in capo al lavoratore un onere di allegazione – cioè di indicazione – delle posizioni professionali dallo stesso eventualmente ricopribili (Cass. 22 ottobre 2009, n. 22417). L’impossibilità d’un diverso impiego deve sussistere anche rispetto a diverse località (Cass. 3 settembre 2008, n. 22163), cantieri (Cass. 22 ottobre 2009, n. 12417) o filiali, persino estere (Cass. 15 luglio 2010, n. 16579);
c) in caso di accertata fondatezza delle esigenze di riduzione di personale, la necessità che comunque siano utilizzati dei criteri di scelta secondo principi di buona fede e correttezza nella selezione dello stesso personale in esubero. Tali criteri, dovendo essere oggettivi e predeterminati, sono stati individuati dalla unanime giurisprudenza in quelli previsti dall’art. 5 della l. n. 223/1991 per i licenziamenti collettivi, così da escludere che il licenziamento delle persone selezionate possa essere il risultato di una scelta a contenuto discriminatorio (v. per tutte Cass. 1° luglio 2011, n. 14518; Cass. 28 marzo 2011, n. 7046; Cass. 28 marzo 2011, n. 7046).
Tanto premesso, proviamo ad ipotizzare le situazioni in cui l’insussistenza del GMO potrebbe ritenersi «manifesta».
4.2.2. – Manifesta insussistenza: tutela reale.
Come è stato giustamente osservato, la formula legislativa – presa a prestito dalle disposizioni relative al licenziamento disciplinare – appare difficilmente riconducibile alle complesse valutazioni necessarie per esaminare al sussistenza di un giustificato motivo oggettivo, certo non riconducibili ad un unico «fatto» (Ponterio 2012, che conseguentemente dubita della sua legittimità costituzionale). Verificheremo tra poco se e come la pratica giurisprudenziale abbia contribuito a chiarire la differenza che corre tra la «manifesta insussistenza del fatto» posto a base del licenziamento per GMO e le «altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo», tracciando in concreto il confine tra tutela reale e tutela obbligatoria, e in che misura si possa agevolmente tracciare il confine, specie per il GMO, tra l’accertamento dei fatti e la sua valutazione giuridica.
4.2.3. – Effettiva sussistenza dei motivi addotti. – Nell’accertamento del fatto ricorrono senz’altro i presupposti dichiarati dal datore di lavoro (ad es.: calo di fatturato, contrazione di ordini, mancanza di commesse, perdita di importanti clienti, soppressione di un reparto o di un posto di lavoro) e il nesso di causalità tra il provvedimento organizzativo adottato e la posizione del singolo dipendente licenziato. Occorre quindi, innanzi tutto, che i presupposti (la prova della cui esistenza incombe sul datore di lavoro, ai sensi dell’art. 5 della l. n. 604 del 1966) siano veri e non artefatti. Ma – come detto – a differenza che per il GMS, «il fatto» può non consistere in singoli episodi necessariamente verificatisi al momento del provvedimento espulsivo, potendosi invece riferire a un contesto più generale di circostanze, individuabili anche ex post.
La Cassazione ha confermato la possibilità di controllo della reale sussistenza della effettività e non pretestuosità del riassetto organizzativo operato, rinvenendo,ad esempio, una contraddizione tra la dichiarata crisi economica derivante dalla contrazione di ordini e l’assunzione di altro dipendente avvenuta pochi mesi prima del licenziamento, per incombenze «in larga parte» coincidenti (Cass. 3 agosto 2011, n. 16925). Ma ad analoghi risultati si sarebbe potuti giungere in caso di assunzioni successive al licenziamento (caso verificabile, purtroppo, solo nello stretto termine per l’impugnazione giudiziale, ridotto a 180 giorni): si ritiene che entrambe tali ipotesi debbano comportare il diritto alla reintegrazione, venendo meno la ragione giustificatrice e comunque il nesso di causalità con quel licenziamento.
La reintegrazione potrebbe inoltre trovare applicazione in tutti quei casi in cui non viene confermata l’effettività del riassetto organizzativo operato, ma emerga addirittura la sua pretestuosità: si pensi, ad esempio, oltre al caso del dipendente licenziato e sostituito con l’assunzione di una figura professionale equivalente, anche a quello del lavoratore facilmente riutilizzabile in altro reparto o in altra filiale o cantiere: resta infatti nostra opinione che il fatto «posto a fondamento» di quel determinato licenziamento debba avere uno stretto collegamento causale con la singola postazione che si vuole sopprimere, pena l’insussistenza della giustificazione (= fatto giustificativo).
Analogamente ove – per esempio – invocata una situazione sfavorevole del fatturato, nel corso del giudizio essa dovesse risultare «gonfiata» oppure meramente provvisoria (nonostante sia stata prospettata come definitiva): si potrebbe sostenere che la sua «non contingenza» comporti una valutazione di manifesta insussistenza (cfr. Cass. 23 febbraio 2012, n. 2712).
4.2.4. – Violazione dell’obbligo di repechage. – Non possiamo nasconderci che – al di fuori delle ipotesi di evidente inesistenza o addirittura fittizietà del motivo addotto e/o di un nesso causale – scendiamo in un terreno incerto, che trova nella questione relativa alle sanzioni in caso di violazione dell’obbligo di repechage il suo nodo centrale. A seconda, infatti, della soluzione su cui si assesterà la giurisprudenza, potrà dirsi se con la legge si sia veramente ottenuta la – da taluni auspicata – “mano libera” per il datore di lavoro di liberarsi ingiustificatamente di personale sgradito, a costi preventivabili.
Si è da parte nostra già sostenuto che l’accertamento sulla riutilizzabilità di un lavoratore il cui posto si afferma soppresso rientra nel fatto, perché finalizzato a determinare se sia vero che il datore non ha più la necessità di quella postazione, cosa che sarebbe smentita dalla ricollocabilità del dipendente su posizioni libere. Quindi da un lato si può sostenere che la soppressione del posto di lavoro non c’è perché il soggetto interessato può ancora essere positivamente utilizzato nel contesto produttivo (Speziale 2013) e dall’altro che il datore, in questo caso, avrebbe fatto un uso dello ius variandi in violazione di legge.
Questa impostazione riesce a conciliare la norma in oggetto, evidente espressione della liberà di iniziativa economica (art. 41 primo comma Cost.) con il vincolo della tutela della dignità e libertà umana (art. 41 secondo comma Cost.) e delle disposizioni della Carta che pongono il lavoro a fondamento della Repubblica (artt. 1, 4 e altre Cost.): il bilanciamento di tali interessi consente di affermare la perdurante validità del principio dell’extrema ratio, che, incidendo direttamente sulla portata dell’art. 3 l. n. 604/1966, contribuisce alla configurazione delle regole del repechage (Nogler, 2007), ponendolo come carattere costitutivo dell’esistenza del giustificato motivo oggettivo e imponendo, in caso di sua violazione, la reintegra (Speziale 2013; Perulli 2012; Zoppoli 2012 ; Albi 2013; Scarpelli 2013; Sordi 2013).
Alcune decisioni, a partire da Trib. 20 novembre 2012 (est. Casella), sembrano accogliere l’opposta tesi secondo cui l’obbligo del repechage sarebbe una (mera) “conseguenza (del) fatto posto a fondamento del licenziamento”: nel caso di specie, quindi, in una ipotesi di (non specificamente contestata) cessazione di appalto, ove però non era stata fornita la prova dell’impossibilità di reimpiegare il lavoratore in atri appalti gestiti dalla società, il giudice ha condannato, motivatamente, la società al pagamento di un’indennità risarcitoria di 20 mensilità. Analogamente Trib. Roma 8 agosto 2013 (est. Pagliarini), ritenendo che la violazione dell’obbligo di repechage rientri nelle “altre ipotesi” rispetto alla “manifesta insussistenza del fatto”, ha condannato il datore di lavoro ad un’indennità risarcitoria di 15 mensilità facendo – tra l’altro – esplicito riferimento al comportamento delle parti (definito nel complesso collaborativo e disponibile”) e alle posizioni delle stesse nel tentativo di conciliazione (offerta aziendale di 5/6 mensilità, richiesta della lavoratrice di 18). Sempre in ipotesi di cessazione di appalto riguardante un servizio di portierato, Trib. Varese 2 settembre 2013 (est. Fumagalli) ha ritenuto sussistere le “altre ipotesi”, condannando la società al pagamento di un’indennità risarcitoria di 12 mensilità, anche in ragione della minima anzianità di servizio (9 mensilità).
Di contrario avviso Trib. Reggio Calabria 3 giugno 2013 (est. Morabito) che, dopo aver affermato la facoltà per il giudice di scegliere tra la tutela reintegratoria ed indennitaria, invocando «la regola generale dettata in materia dall’art. 2058 cod. civ.” ha così statuito: «alla luce della miglior dottrina fino al momento espressa anche dalla novella della legge 92/2012, questo giudice ritiene che il repachage configuri “un attributo normativo sostanziale nella definizione del giustificato motivo oggettivo”, ricostruzione che muove dalla – parimenti condivisibile – nozione di “fatto” non distinguibile dalla valutazione e connotazione giuridica del fatto stesso». ConformeTrib. Milano 23 febbraio 2013 (est. Scarzella).
4.2.5. – Violazione dei criteri di scelta. – Le stesse argomentazioni sopra svolte dovrebbero valere per l’applicazione di criteri di scelta obiettivi. La manifesta insussistenza del fatto giustificativo sarebbe, ad avviso di chi scrive, riconducibile alla mancanza di collegamento causale con la singola postazione: non si tratterebbe, a quel punto, di un licenziamento per motivo obiettivo, ma soggettivo!
Il caso è equiparabile alla violazione dell’obbligo di repechage, in quanto nell’uno come nell’altro caso il vaglio giudiziario è l’unico strumento per evitare un uso distorto dei poteri datoriali, ed in particolare l’utilizzo di una – apparentemente – più agevole facoltà di recesso per motivi oggettivi, che potrebbe lasciare spazio ad un vero e proprio abuso del diritto.
Sviluppa un ulteriore argomento Speziale (2013) a commento di Trib. Modena 26 giugno 2013 (est. Vaccari) che ha per l’appunto fatto riferimento, in via analogica, ai criteri di cui all’art. 5 della l. n. 223/1991, salvo poi applicare la tutela risarcitoria a fronte dell’accertata violazione dei principi di correttezza e buona fede. Secondo l’Autore l’applicazione analogica dei parametri selettivi previsti per la riduzione del personale dovrebbe necessariamente comportare i medesimi effetti, che in caso di violazione dell’art. 5 comma 3 della l. n. 223/1991 sono la reintegrazione ai sensi del comma 4 dell’art. 18: quando, infatti, si voglia estendere al licenziamento individuale la stessa regola operante per quelli collettivi, non può trascurarsi la precisa opzione effettuata dal legislatore in favore della sanzione ripristinatoria.
4.2.6 – Le altre ipotesi. – Esattamente come per il GMS, «nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo» (oggettivo) il giudice applica la tutela obbligatoria di cui al comma 5, secondo i criteri indicati nel prossimo paragrafo.
Non è facile capire quali casi rientrino in tale definizione. Un dubbio potrebbe sorgere in caso di licenziamento esplicitamente motivato da ragioni c.d. «speculative», ossia unicamente strumentali ad incremento del profitto in assenza di crisi: in questo caso la semplice necessità di riduzione dei costi potrebbe rientrare tra gli «altri casi» di recesso ritenuto ingiustificato in cui il giudice applichi la sola tutela obbligatoria.
Ma, una volta esauriti i tentativi di rendere meno pregiudizievole possibile la riforma in commento, ove dovessero passare, nei prossimi gradi di giudizio (ed in particolare tra i giudici della Suprema Corte), interpretazioni più restrittive secondo le quali la reintegrazione può essere applicata solo al motivo falso o del tutto pretestuoso, la tutela reale resterà davvero residuale.
Il comma 7 si conclude con una disposizione «oscura», probabile residuo di una precedente versione in cui nel GMO non vi era alcuna previsione di reintegra: si ipotizza, infatti, che il lavoratore formuli una domanda diretta a far risultare il licenziamento «determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari», che in caso di accoglimento porterebbe all’applicazione delle «relative tutele». Mentre per l’ipotesi di licenziamento discriminatorio può aver senso per il lavoratore invocare una tutela rafforzata, appare meno ipotizzabile che questo avvenga per un dipendente che dovrebbe sostenere… di aver commesso degli addebiti disciplinari, gravi ma non gravissimi, e di essere stato licenziato per quel motivo. Al di là dell’improbabile situazione, ove venisse fornita tale prova ci troveremmo di fronte ad una manifesta insussistenza di GMO, venendo meno ogni ragione per invocare l’identica tutela prevista per il GMS.
5. – Le conseguenze del licenziamento illegittimo: il regime sanzionatorio introdotto dal disegno di legge. – Prima della Legge Fornero l’accertamento da parte del giudice dell’illegittimità del licenziamento dava luogo a conseguenze diverse a seconda delle dimensioni occupazionali del datore di lavoro. Come noto, il discrimine per l’applicazione della tutela obbligatoria (il lavoratore può avere la riassunzione, ma solo con il consenso anche del datore, o il risarcimento del danno, da 2,5 a 6 mensilità), oppure della tutela reale (il lavoratore ha diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro ed al risarcimento di tutti i danni subiti) era individuato nella soglia dei quindici dipendenti occupati in una stessa sede o nell’ambito del Comune (ovvero 60 in tutta l’impresa).
Con la riforma la situazione è rimasta invariata nei luoghi di lavoro di dimensioni ridotte, ove permane la tutela obbligatoria «debole» prevista dalla l. n. 604/1966 con la misura dell’indennità risarcitoria conosciuta (in alternativa alla riassunzione, da 2,5 a 6 mensilità), mentre tutto è cambiato sopra la citata soglia di dimensioni occupazionali ove, in luogo dell’applicazione automatica della tutela reale, abbiamo quattro diversi tipi di sanzione: due forme di «tutela reale», definite dalla dottrina a) «piena» (per il licenziamento discriminatorio ed affini) e b) «attenuata» (solo) per alcuni licenziamenti per giusta causa o GMS e (solo) per alcuni licenziamenti per GMO; due forme di «tutela obbligatoria» (o indennitaria) in alternativa alla reintegrazione: c) una forma «forte» (indennità risarcitoria da 12 a 24 mensilità); d) una tutela indennitaria «debole» per la violazione di obblighi di forma e/o di procedura, con indennità risarcitoria dimezzata (da 6 a 12 mensilità). Procediamo con ordine.
5.1. – Le nuove caratteristiche della tutela reale «attenuata» (limiti della condanna al risarcimento del danno in caso di reintegrazione). – Con il «vecchio testo» dell’art. 18, in caso di reintegrazione, il datore veniva condannato ad un risarcimento dei danni pari alle retribuzioni perdute dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegra: ciò significa che, se il lavoratore (che impugnava il suo licenziamento) perdeva la causa in tribunale ma poi otteneva giustizia in grado di appello o in Cassazione, o addirittura nel giudizio di rinvio dopo la Cassazione, ed era rimasto privo di occupazione per tutto il periodo, otteneva dal giudice la condanna del datore di lavoro al risarcimento integrale del danno subito, pari a tutte le retribuzioni perdute nel corso degli anni di durata del processo in tutti i suoi gradi. La giurisprudenza aveva elaborato il principio della detraibilità dall’ammontare del risarcimento di quanto eventualmente percepito lavorando altrove (il cd. aliunde perceptum), ponendo però l’onere della prova della percezione di tali emolumenti in capo al datore di lavoro; aveva inoltre sostenuto che non fossero detraibili le somme percepite a titolo di disoccupazione (che, a rigore, dovevano essere restituite all’INPS al momento della ricostruzione dell’intero rapporto sotto il profilo retributivo e contributivo) né a titolo di pensione. Era dovuto un risarcimento del danno nella misura minima di 5 mensilità (anche se il lavoratore otteneva la reintegra prima, ad esempio a seguito di un procedimento cautelare) e, se il lavoratore optava per le quindici mensilità di indennità sostitutiva della reintegrazione, aveva diritto alle retribuzioni successive alla sentenza fino alla data dell’effettivo pagamento dell’indennità.
La tutela reintegratoria «piena» viene oggi riconosciuta solo per i casi di licenziamento dichiarato nullo nelle ipotesi previste dal comma 1 dell’art. 18 (licenziamenti discriminatori e per motivo illeciti) e al licenziamento «inefficace» perché privo di forma scritta.
In particolare recita il primo comma: «Il regime di cui al presente articolo [ove dovrà leggersi «comma»] si applica anche al licenziamento inefficace perché intimato in forma orale». Quindi il licenziamento orale potrà essere impugnato come prima (con o senza offerta della prestazione lavorativa), ed in mancanza di sua revoca entro quindici giorni il lavoratore potrà agire in giudizio per la reintegrazione. Si consideri che oggi il datore di lavoro non potrà falsamente sostenere – come frequentemente avveniva in passato – l’inesistenza del licenziamento in ragione di asserite dimissioni orali del dipendente, e ciò in quanto l’efficacia delle (presunte) dimissioni del lavoratore sarebbe comunque sospensivamente condizionata alla convalida delle stesse (v. art. 4 comma 17 ss., l. n. 92/2012.
Si è ipotizzato che il legislatore, collocando tale disposizione in un comma in cui la «tutela reale forte» viene applicata a tutti i datori a prescindere dalle loro dimensioni occupazionali, possa aver esteso la medesima anche al licenziamento orale al di sotto dei sedici dipendenti.
Per il resto la riforma viene incontro alle esigenze degli imprenditori sotto diversi aspetti. In primo luogo prevedendo non solo che la deduzione di altri redditi sia automaticamente imposta al giudice, ma anche che questi tenga conto di quanto il lavoratore «avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di nuova occupazione»; in secondo luogo, per neutralizzare il pericolo di un risarcimento danni troppo elevato (anche se corrispondente al danno effettivo), fissando un tetto massimo di dodici mensilità per l’indennità risarcitoria, penalizzando così ingiustamente il lavoratore non tanto nell’ipotesi in cui il processo di primo grado duri più di un anno (ipotesi che dovrebbe ottimisticamente essere scongiurata sia dal nuovo termine di decadenza di 180 giorni per impugnare il licenziamento in via giudiziale, sia dal rito speciale per le controversie in tema di licenziamenti), quanto, soprattutto, nel caso sopra ipotizzato in cui egli – perduta la causa in primo grado – riesca a vincerla solo dopo molti anni, in Appello od in Cassazione. Il rischio della disfunzione della giustizia, dunque, viene posto interamente a carico del dipendente, con buona pace dei principi di diritto civile in tema di integrale ristoro del danno subito.
Salvo il caso del licenziamento discriminatorio (e affini) di cui al nuovo comma 1 dell’art. 18, non è prevista la misura minima delle cinque mensilità, mentre ulteriori agevolazioni sono previste nel computo dell’indennità risarcitoria, favorendo il datore nel pagamento dei contributi arretrati ed esentandolo da sanzioni per omessa o ritardata contribuzione. In caso di opzione del lavoratore per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, è previsto che la «richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro» e quindi il lavoratore non continua a maturare il diritto alla retribuzione: viene così meno l’interesse del datore a provvedere quanto prima al pagamento dell’indennità.
Il terzo comma dell’art. 18, laddove conferma il termine di trenta giorni per esercitare il diritto di opzione, fa riferimento, oltre che all’invito del datore, alla data di «comunicazione di deposito della sentenza» pur esaurendosi la prima fase del nuovo procedimento con un’ordinanza. L’ambiguità del testo – possibile frutto di una dimenticanza e/o di un mancato coordinamento con la parte processuale della stessa legge n. 92/2013 – espone il lavoratore che non abbia ricevuto l’invito a riprendere il lavoro all’esito positivo della prima fase del procedimento e che non sia in grado di decidere se esercitare o meno l’opzione, al pericolo di decadere dal diritto.
Non constano precedenti giurisprudenziali sul punto.
5.2. – Criteri per la determinazione della misura del risarcimento dell’indennità risarcitoria. – Come si è detto, la Legge Fornero prevede una soluzione rimediale alternativa alla reintegrazione, ovvero il pagamento di una «indennità risarcitoria onnicomprensiva» (che va da 12 a 24 mensilità) sempre nell’ipotesi che il licenziamento risulti ingiustificato.
Tale soluzione interviene nelle «altre ipotesi»:
a) di mancanza di GMS o giusta causa non coincidenti con quelle indicate dal nuovo comma 4 dell’art. 18 Stat. lav.;
b) di mancanza di giustificato motivo non coincidenti con quelle relative all’inidoneità psicofisica o al superamento del comporto (comma 7, prima parte) o con le ipotesi di manifesta insussistenza del fatto posto a base del GMO (comma 7, seconda parte).
Il giudice determina l’ammontare dell’indennità: a) in relazione all’anzianità del lavoratore; b) tenuto conto: b1) del numero di dipendenti occupati dall’impresa; b2) delle dimensioni dell’attività economica; b3) del comportamento e condizioni delle parti. Rispetto ai criteri da applicare – che certamente costituiranno un nuovo parametro di riferimento nella valutazione delle ipotesi transattive, sia prima che in costanza di giudizio – il giudice ha un onere di specifica motivazione.
Ciò comporta, quindi, anche un onere di allegazione da parte del lavoratore che promuove la causa: egli, ragionevolmente, proporrà una domanda principale di reintegrazione ed una domanda subordinata di pagamento dell’indennità, supportata da prove o, in loro mancanza, da richiesta di ordine di esibizione al giudice. Per quanto riguarda l’anzianità del lavoratore (probabilmente di servizio; in ogni caso quella anagrafica risulterà dai dati obbligatoriamente inseriti in ricorso) e sulle sue condizioni sarà opportuno evidenziare tutte quelle rilevanti ai fini della quantificazione. Sul numero dei dipendenti il giudice potrà ordinare al datore di lavoro l’esibizione del libro unico, mentre per le dimensioni dell’attività economica potrà forse essere opportuno depositare una visura della società completa di bilanci, dalla quale evincere sia il numero delle unità locali sia il volume d’affari. Sul comportamento delle parti, infine si dovrà evidenziare quello censurabile – dal punto di vista attivo od omissivo – del datore tenuto anche in sede di procedura preventiva di conciliazione.
La mancata motivazione da parte del giudice di uno specifico riferimento ai parametri utilizzati per la quantificazione dell’indennità comporterà un vizio della decisione e potrà essere motivo di impugnazione.
Si auspica che, nonostante la dizione «indennità risarcitoria onnicomprensiva», essa si aggiunga comunque all’indennità sostitutiva del preavviso, così come la giurisprudenza ha ritenuto a proposito della «vecchia» tutela obbligatoria (Cass. 8 giugno 2006, n. 13380; Cass. 14 giugno 2006, n. 13732).
6. – Licenziamento illegittimo per vizi di forma e/o di procedura.
Ulteriore novità introdotta dalla Legge Fornero concerne l’introduzione di un regime separato delle conseguenze del licenziamento illegittimo per vizio di forma e/o di procedura.
Fino ad oggi la lesione di elementari procedure garantistiche comportava la stessa conseguenza della violazione di norme sostanziali, per cui il licenziamento viziato veniva considerato dal giudice, ai fini sanzionatori, come licenziamento ingiustificato.
Il comma 6 dell’art. 18 prevede tre ipotesi di «inefficacia» del recesso le cui conseguenze sono non già la reintegrazione, ma una monetizzazione dimezzata rispetto a quella prevista dal comma 5 (da sei a dodici mensilità), con esplicito richiamo al comma 5, che considera «risolto il rapporto con effetto dalla data del licenziamento» (con buona pace dei principi generali sulla categoria della nullità/inefficacia, che per definizione… non produce effetti!), salvo che il lavoratore non richieda al giudice un accertamento del difetto di giustificazione.
Le tre ipotesi riguardano: 1) la violazione del requisito di motivazione del licenziamento, che ai sensi del nuovo art. 2 della l. n. 604, deve essere contestuale al licenziamento; 2) la violazione della procedura dell’art. 7 dello Statuto per i licenziamenti disciplinari; 3) la violazione della nuova procedura per i licenziamenti per GMO.
Un’osservazione si rende necessaria: tutti i soggetti (ed in primo luogo il datore di lavoro) sono tenuti al rispetto delle regole della legalità e desta un certo turbamento la (parziale) messa in discussione del principio del rispetto delle forme giuridiche. Ma, limitandoci ad affrontare solo gli aspetti pratici della Legge Fornero – ed astenendoci dal disquisire sulle conseguenze giuridiche normalmente derivanti dalla nullità e/o inefficacia di un atto di risoluzione del rapporto (che, come sopra evidenziato, non può produrre effetti risolutori) –, ne evidenziamo quelli più problematici.
1) Il primo riguarda la violazione del requisito di motivazione del licenziamento. A tale proposito si è accennato al fatto che la decisione di sanzionare l’omessa motivazione con un mero indennizzo potrebbe – in un’ipotesi estrema, a quanto risulta mai realizzatasi nel primo biennio di applicazione della legge – prestare il fianco a comportamenti spregiudicati, potendo teoricamente il datore «scegliere» la strada del vizio di forma per mettere il lavoratore nella situazione di dover scegliere tra accettare un modesto indennizzo e intraprendere una causa… alla cieca, nella quale il datore di lavoro potrebbe, teoricamente, allegare e dimostrare qualunque cosa.
Si è già detto, a tale proposito, che – a ben guardare – l’eventuale tattica datoriale di non motivare il licenziamento finalizzata a eludere la reintegrazione per pagare un’indennità risarcitoria pari alla metà di quella prevista per il licenziamento ingiustificato (esponendosi solo al rischio di una causa in cui potrà provare a scoprire le carte che vorrà nel momento in cui lo riterrà opportuno) avrebbe il respiro corto: certamente, infatti, il giudice in un’ipotesi del genere, consentirà al lavoratore di sviluppare le proprie difese, e la posizione processuale del datore di lavoro che esporrà per la prima volta i propri motivi potrebbe rivelarsi invece vantaggiosa per il lavoratore, che avrà l’opportunità di replicare evidenziando tutte le contraddizioni e le colpevoli omissioni. In ogni caso – si ribadisce – una simile condotta violerebbe la norma nel suo precetto fondamentale («specificazione dei motivi»)[2] e non sarebbe facilmente governabile, in caso di applicabilità dell’art. 18 per dimensioni occupazionali, nel corso della procedura di cui all’art. 7, legge n. 604/1966, la cui apertura prevede comunque l’indicazione dei motivi: a meno che non si voglia ipotizzare anche il mancato esperimento della stessa, con «doppia violazione» di entrambe le regole procedimentali.
2) La violazione della procedura di cui all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori dovrebbe, in astratto, limitarsi alle ipotesi di inosservanza dei commi 1, 2 e 3 di cui si è parlato a proposito delle «nozioni essenziali» (v. supra 3.1), anche se la contestazione formulata in modo generico equivale, nella sostanza, al vizio di omessa contestazione.
La questione è però controversa: la tesi per cui una contestazione che non consente l’identificazione materiale del fatto contestato è stata accolta dalla dottrina (Romei 2012) in un’ipotesi di assenza di qualsiasi contestazione nella lettera di licenziamento) con conseguente diritto alla reintegrazione ai sensi del comma 4; ma contestata da altri (Tremolada 2012; Speziale 2013) secondo cui la sanzione dei commi 4 e 5 può aversi luogo solo a fronte di un accertamento giudiziale di sostanziale illegittimità del recesso. Trib. Milano 22 gennaio 2013 (est. Cuomo) in un caso di contestazione generica ha sanzionato con la tutela risarcitoria ridotta di cui al comma 6. Analogamente Trib. Ancona 31 marzo 2013 (est. Sbano) in caso di violazione dei termini convenzionali previsto dal CCNL.
Rispetto al licenziamento intimato in assenza di preventiva contestazione di addebito si è parimenti sostenuto che esso debba compararsi all’«insussistenza del fatto contestato» (Carinci 2012; Colosimo 2012; Palladini 2012).
Peraltro – da un punto di vista pratico – se si ritiene che gli addebiti siano infondati, appare prudente impugnare il licenziamento anche nel merito e, dopo aver eventualmente sostenuto tale tesi in principalità, formulare una richiesta subordinata di condanna al pagamento dell’indennità di cui al comma 6, per l’ipotesi in cui il giudice consenta al datore di provare l’addebito e il datore di lavoro fornisca la prova in giudizio della giustificatezza del recesso.
La mancanza di tempestività attiene – a parere di chi scrive – all’esercizio del potere disciplinare e pertanto soggiace alle sanzioni di cui ai commi 4 e 5 dell’art. 18. La tesi è stata accolta da Trib. Milano 27 aprile 2013 (est. Cipolla) ma respinta da chi (Trib. Ancona 26 novembre 2012 est. Sbano; Trib. Santa Maria Capua Vetere 2 aprile 2013 est. Cervelli) ha invece ritenuto che la fattispecie costituisca un vizio della procedura di contestazione e sia quindi riconducibile alla tutela risarcitoria ridotta di cui al comma 6. In genere, comunque il giudice ha comunque valutato il merito pervenendo alla sua decisione in considerazione dell’accertamento o meno della sussistenza del fatto contestato, secondo i criteri di cui si è parlato: la sanzione del comma 6 costituisce quindi un “paracadute” per evitare la soccombenza in caso in cui il licenziamento risulti giustificato, salva l’ipotesi in cui il dipendente abbia interesse alla sola indennità «dimezzata» e che possa e voglia invocare in giudizio esclusivamente l’applicazione del comma 6.
3) Quanto all’estensione della sanzione «ridotta» anche alla violazione dell’art. 7 della l. n. 604/1966 non può non evidenziarsi l’assurdità, per la legge Fornero, di aver introdotto una nuova procedura, indicando subito una via di fuga dalla stessa «a basso costo».
Le nuove disposizioni, inoltre, comportano conseguenze non da poco sul processo, che si appesantisce di nuove incombenze istruttorie per il giudice. Se infatti prima della riforma le problematiche relative ai vizi di forma o di procedura venivano affrontate in via pregiudiziale e conseguentemente il giudice ordinava la reintegra arrestando l’indagine al solo vizio, oggi egli – anche se intende pronunciarsi sul solo vizio di procedura – deve ugualmente entrare nel merito dei parametri di cui si è parlato sopra al par. 4.2 e quindi valutare documenti e forse escutere testi, «con onere di specifica motivazione a tale riguardo».
Un’ultima osservazione critica va riservata alla parte finale del comma 6, ove si consente al lavoratore che promuove un giudizio di scegliere se fermarsi alla richiesta risarcitoria oppure chiedere al giudice di «entrare nel merito», per accertare che vi sia un difetto di giustificazione del licenziamento, disponendo in questo caso l’appli-cazione, «in luogo di quelle previste dal presente comma [del]le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo».
Chi scrive non trova di per sé scandaloso che chi abbia subito un licenziamento assolutamente giustificato possa ottenere solo un risarcimento (e persino contenuto) per l’«errore formale» in cui è incappata la controparte o per aver trascurato di osservare la procedura. Può al riguardo osservarsi che la ratio di un intervento legislativo in tal senso – come dichiarato nel corso della presentazione del testo del disegno di legge – va ricercata nell’esigenza di sanzionare diversamente violazioni che si assumono di peso diverso. Ciò detto, logica avrebbe voluto che il risarcimento per la violazione di forma e/o di procedura, nel caso di licenziamento successivamente ritenuto anche ingiustificato, non fosse alternativo alle tutele di cui ai commi 4, 5 o 7, ma complementare, in quanto diretto a sanzionare un comportamento qualitativamente diverso.
Va segnalata in chiusura una novità importante: l’estensione della previsione «contro chi si mette in malattia», contenuta nell’emendamento approvato al Senato e alla Camera in merito alla procedura avanti alla DTL in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, anche al licenziamento disciplinare. L’art. 1, comma 41, della l. n. 92/2012 prevede, infatti, che anche nei procedimenti disciplinari disciplinati dall’art. 7 Stat. lav. il licenziamento «produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo è stato avviato»: in tal modo si inserisce un ulteriore peggioramento alla disciplina del licenziamento disciplinare (per motivo soggettivo) anche al di fuori dell’ipotesi di licenziamento per giusta causa, per il quale è già previsto che il datore possa ricorrere alla sospensione cautelare non disciplinare contestualmente alla contestazione di addebito.
6.1. – Le procedure dei CCNL per i licenziamenti disciplinari. – Tra le tre ipotesi di vizio di forma non sono incluse le modalità procedurali previste da molti contratti collettivi, che introducono termini di decadenza, ad esempio, per l’irrogazione del licenziamento disciplinare. La giurisprudenza ritiene che, scaduto il termine indicato nel CCNL di settore senza che il datore abbia emanato la sanzione disciplinare nei confronti del dipendente, egli decada definitivamente dal potere sanzionatorio non potendo più licenziare tardivamente il dipendente, con conseguente illegittimità del licenziamento e diritto alla indennità risarcitoria (v. Cass. 18 marzo 2008, n. 7295).
Quali sanzioni saranno applicate in caso di violazione dei termini convenzionali? È questa una lacuna del testo che probabilmente lascerà spazio a un contenzioso, dal momento che difficilmente potrà sostenersi l’estensione in via analogica di una disposizione speciale e derogatoria prevista per ipotesi tassative.
7. – La revoca del licenziamento. – Prima della riforma, la revoca del licenziamento da parte del datore di lavoro veniva comunemente considerata una proposta contrattuale di ricostruzione del rapporto; questa conseguentemente doveva essere accettata (anche se non necessariamente per iscritto, essendo sufficiente un comportamento concludente quale la ripresa del lavoro). Si riteneva che la revoca non escludesse l’obbligo di risarcire il danno se non veniva accettata, anche se si è negato il risarcimento in un’ipotesi di immediata ricostruzione del rapporto, che conseguentemente non aveva subito alcuna interruzione.
Un’innovazione introdotta dal nuovo comma 10 dell’art. 18 della legge Fornero riguarda la possibilità, per il datore di lavoro, di revocare il licenziamento entro 15 giorni da quando riceve la comunicazione dell’impugnazione. In tal caso, egli è tenuto solo a pagare le giornate non lavorate.
La volontà del lavoratore se accettare o meno la revoca non viene considerata, e non rilevano le conseguenze sul rapporto fiduciario – spesso enfatizzate da parte padronale per contrastare ipotesi di reintegrazione – provocate da una brusca interruzione del rapporto per volontà di una sola delle parti. La dignità ferita del dipendente ingiustamente licenziato conta poco: egli deve «fare finta di niente» e ringraziare del pentimento (probabilmente solo strumentale) il datore di lavoro, il quale, essendosi magari accorto di aver commesso un errore di forma, sarà libero di ri-licenziarlo immediatamente dopo.
Va però detto che, per controbilanciare tali disposizioni, la stessa legge n. 92/2012 ha introdotto importanti novità (art. 4, commi da 16 a 23) anche in materia di dimissioni: da un lato si è rafforzata la tutela per le lavoratrici madri o lavoratori padri (e adottivi), mentre dall’altro si sono previste per la generalità dei lavoratori procedure finalizzate ad impedire le «dimissioni in bianco» o a contrastare le «dimissioni estorte», che attribuiscono al dipendente dimessosi un vero e proprio diritto al ripensamento ed anche, espressamente, alla revoca delle dimissioni.
8. – Brevi osservazioni sul regime delle prescrizioni. – A fronte di una regola generale del diritto civile, secondo cui la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, fanno eccezione i crediti retributivi, per i quali – in alcuni casi – il termine di prescrizione decorre solo dalla fine del rapporto di lavoro: la Corte Costituzionale (sent. 10 giugno 1966, n. 63) ha infatti dichiarato l’illegittimità delle norme del codice civile nella parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro. Ritenendo che il lavoratore potrebbe non esercitare il proprio diritto per il timore reverenziale nutrito nei confronti del datore di lavoro, i giudici delle leggi hanno stabilito che la prescrizione decorra dal momento della cessazione del rapporto di lavoro.
Successivamente, peraltro, la stessa Corte Costituzionale con numerose decisioni ha stabilito che il principio della non decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi opera solo per quei rapporti che non sono assistiti dalla garanzia della stabilità (v. per tutte Corte Cost. 20 novembre 1969 n. 143); le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno confermato il principio (Cass., Sez. Un., 12 aprile 1976 n. 1268).
Sino alla novella in esame, si riteneva che la tutela reale fosse garantita dall’art. 18 dello Statuto e che conseguentemente in tale contesto la prescrizione quinquennale dei crediti retributivi decorresse durante il rapporto a partire dal momento in cui maturava ogni singolo diritto, mentre per i lavoratori non assistiti dalla stabilità reale la prescrizione dei crediti retributivi decorreva solo dalla data di cessazione del rapporto.
Nell’imminente uscita della legge Fornero si era evidenziato che con il nuovo testo dell’art. 18 nessun rapporto può più considerarsi protetto dalla tutela reale, intendendosi per tale la certezza di ottenere la reintegrazione in ipotesi di licenziamento illegittimo. Ne consegue che la prescrizione non potrà più decorrere in costanza di rapporto anche nelle realtà di maggiori dimensioni occupazionali.
La tesi è stata accolta dalla prevalente dottrina e giurisprudenza, anche se non sono mancate opinioni contrarie.
[1]Aggiornamento a Maggio 2014, con il contributo di Mara Congeduti, del precedente testo pubblicato nel volume Rapporti di lavoro e ammortizzatori sociali, AA.VV. Ediesse, 2012
[2]In un’ipotesi di superamento del comporto con mancato riferimento ai periodi di assenze, Trib. Milano 9 marzo 2013 (est. Scarzella) ha ritenuto applicabile la tutela risarcitoria ridotta di cui al comma 6 per difetto di motivazione.