Immagino che nelle ultime settimane anche altri avvocati giuslavoristi si siano sentiti rivolgere, dai lavoratori loro assistiti, affermazioni del genere: “ho sentito in TV che non mi possono licenziare” o magari persino – ben più pericolosa – “ho letto che se mi licenziano posso aspettare ad impugnare”. Proviamo a fare chiarezza.
Nella normativa dettata dall’emergenza Covid-19 c’è una disposizione (l’articolo 46 del Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020, il cosiddetto “Cura Italia”) che, prima della legge di conversione, aveva un titolo ingannevole.
L’articolo era infatti rubricato “Sospensione delle procedure di impugnazione dei licenziamenti”, il che poteva indurre a ritenere che fossero, appunto, sospesi i termini per opporsi ai provvedimenti espulsivi datoriali; ma né nell’articolo 46 né altrove era (o è) prevista una norma che sospenda il termine di impugnativa stragiudiziale dei licenziamenti, che quindi resta di 60 giorni da quando si riceve la comunicazione di recesso, come previsto dall’articolo 6, comma 1, Legge 604/1966.
Con la Legge 24 aprile 2020, n. 27, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 29 aprile 2020, il Decreto Legge “Cura Italia” è stato convertito con modificazioni, e l’equivoco è venuto meno, perché in relazione all’articolo 46 è stato disposto che “la rubrica è sostituita dalla seguente: «Disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo»”. A coloro che hanno a cuore l’interesse dei lavoratori resta solo da sperare che, nel frattempo, nessuno abbia omesso una tempestiva impugnativa di un recesso illegittimo.
Il contenuto dell’articolo 46 del Decreto “Cura Italia”, come modificato dalla legge di conversione, dispone che, dall’entrata in vigore “del presente decreto” (il giorno stesso della pubblicazione in Gazzetta ufficiale, il 17 marzo 2020), “l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per 60 giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604”.
Ossia: per sessanta giorni non possono essere iniziate né, se avviate dopo il 23 febbraio, possono essere proseguite, le procedure di licenziamento collettivo (già “procedure di mobilità”); e, nello stesso periodo, non possono essere disposti licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, ovvero basati su “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.
Il testo del “Cura Italia”, però, nel far riferimento espresso (ora anche nella rubrica dell’articolo) al solo “giustificato motivo oggettivo”, ha evidentemente inteso tutelare contro i soli licenziamenti che potrebbero essere motivati dalla generale crisi produttiva indotta dal cosiddetto “lock down”, anche se in astratto non connessi con l’emergenza sanitaria.
Rubrica a parte, l’unica modifica apportata dalla legge di conversione è stata l’introduzione del riferimento ai recessi datoriali per cambio d’appalto: questi restano consentiti ove, per l’applicazione di “clausola sociale”, i lavoratori licenziati dall’appaltatore uscente vengano assunti dal subentrante. Però per tutelare appieno i lavoratori degli appalti si sarebbero dovuti consentire quei recessi solo ove il subentrante assuma a parità di condizioni rispetto all’uscente; è evidente che, ad esempio, una riduzione dell’orario di lavoro da parte del nuovo datore, rispetto al precedente, non garantirebbe affatto agli interessati quella sicurezza economica che la stabilità del posto di lavoro pare offrire.
L’unico altro punto in cui il Decreto Legge 18/2020 introduce un “nuovo” divieto di licenziamento è il 6° comma dell’articolo 23, laddove – dopo aver introdotto congedi straordinari indennizzati per i genitori di figli fino a 12 anni – nella versione quasi immutata dalla legge di conversione prevede che “Fermo restando quanto previsto nei commi da 1 a 5,” (quelli dedicati, tra l’altro, ai nuovi congedi parentali) “i genitori lavoratori dipendenti del settore privato con figli minori, di età compresa tra i 12 e i 16 anni, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia altro genitore non lavoratore hanno diritto di astenersi dal lavoro per il periodo di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, senza corresponsione di indennità né riconoscimento di contribuzione figurativa, con divieto di licenziamento e diritto alla conservazione del posto di lavoro.”
Il testo pare risentire negativamente, nella formulazione, dell’urgenza; e la legge di conversione non ha eliminato le criticità. Nei primi commi dell’articolo 23, come accennato, si fa riferimento ai diritti dei genitori che abbiano figli di età non superiore ai 12 anni: ebbene, i congedi straordinari là previsti sono sì indennizzati, ma fruibili, nel perdurare della chiusura delle scuole e dei servizi educativi per l’infanzia, “per un periodo continuativo o frazionato comunque non superiore a quindici giorni”; mentre per i figli tra i 12 e 16 anni, se entrambi i genitori lavorano, uno di loro pare potersi legittimamente assentare per tutta la durata della chiusura delle scuole.
Che venga sancito il diritto di assentarsi sine die al genitore di un teen ager, ed invece al genitore di un bambino sia consentito assentarsi solo per un tempo minore, è disposizione che grida vendetta dal punto di vista dell’uguaglianza sostanziale.
Quanto al divieto di licenziamento, l’averlo espressamente disposto è quasi ultroneo: che non si possa essere licenziati per aver fruito di un diritto dovrebbe essere già pacifico.
In conclusione: attualmente non possono essere legittimamente disposti licenziamenti collettivi, né licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, salvo quelli per cambio d’appalto, se i licenziati dall’appaltatore uscente vengono assunti dal subentrante; possono però essere disposti licenziamenti per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa, naturalmente se i motivi sussistono e il recesso è effettivamente stato disposto per le ragioni addotte. Anche un recesso per cambio d’appalto, persino ove seguito da assunzione del subentrante, potrebbe in concreto non essere legittimo.
È appena il caso di precisare che la sussistenza e legittimità dei motivi sarebbero oggetto di verifica nell’eventuale giudizio che avesse ad oggetto il licenziamento.
A deludere maggiormente della legge di conversione, per gli articoli esaminati, non è però né l’incongruenza rimasta in materia di congedi, né la mancata considerazione delle condizioni di assunzione da parte dell’appaltatore subentrante.
È ben più grave che la decorrenza dei 60 giorni durante i quali il legislatore (nel lodevole intento di proteggere i lavoratori durante la pandemia) ha vietato i licenziamenti per motivi “economici”, sia rimasta ancorata alla data di entrata in vigore del “Cura Italia”; così che, all’entrata in vigore della legge di conversione, restano solo pochi giorni di tutela. Ma il legislatore, soprattutto in questi mesi, è sempre al lavoro; non resta quindi che auspicare che la protezione venga estesa ad un termine di maggiore ed apprezzabile durata.
Avv. Cristina Maroni