Dalla   Relazione del Direttore  ISTAT  Linda Laura Sabbadini  alla Commissione  Lavoro del 26 febbraio 2020,  dedicata alla  “partecipazione  femminile al mercato del lavoro e  conciliazione dei tempi di vita”,  emerge  che il  divario di genere nei tassi di occupazione  in Italia rimane  tra i più alti di Europa (circa 18 punti su una media europea di 10); emerge  inoltre il dato, inquietante e purtroppo noto,  che “la qualità del lavoro delle donne   è in netto  in peggioramento.

Secondo l’Istituto “il periodo della crisi si è accompagnato ad un peggioramento della qualità del lavoro delle donne che si è  evidenziato nella precarietà, nella crescita del part time involontario, nella crescita del fenomeno della sovraistruzione”.

In particolare: “La percentuale di donne che lavorano a tempo determinato ha raggiunto nella media dei primi tre trimestri 2019 il 17,3% ; le donne in part time sono ormai un terzo (32,8% nella media dei primi tre trimestri 2019) contro l’8,7% degli uomini.  L’incidenza delle occupate part time è più elevata tra le più giovani (35,1% fino a 34 anni) e cresce al diminuire del titolo di studio (42,6% fino alla licenza media e 22,5% tra le laureate)”.

Quanto ai “comparti”  in cui è più diffuso il part time, dall’analisi dell’Istat emerge che vi è una rilevante diffusione negli alberghi e ristoranti (47,3%) e nei  servizi alle famiglie (58,4%); vi è una larga diffusione   nelle attività commerciali e nei servizi, ed interessa la manodopera meno qualificata.

La relazione  Istat conferma che  “il part time  non è cresciuto come strumento di conciliazione dei tempi di vita, ma fondamentalmente nella sua componente involontaria” , con una incidenza del  part time involontario  “più elevata tra le giovani 15-34 anni e al diminuire del titolo di studio”.

Il fenomeno del  “part time involontario”  quale strategia delle imprese per far fronte alla crisi  sembra essere più diffuso nel nostro Paese che nel resto di Europa.

Sappiamo anche che il lavoro part time è stato oggetto  nel corso degli ultimi venti anni di continue “riforme” che hanno  “incrementato” la  “flessibilità” dal lato “impresa” più che nell’interesse delle lavoratrici e dei lavoratori.  Anziché rafforzare le  tutele per il part time “scelto” quale  strumento per conciliare lavoro e tempo di cura alla famiglia, si è registrato  l’incremento della flessibilità  per l’impresa: in tal senso, ad esempio, la possibilità dell’impresa di sottrarsi alla contrattazione collettiva per l’inserimento nel contratto di lavoro di clausole elastiche.

Pur prevedendo le disposizioni vigenti che il lavoratore a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno di pari inquadramento,  è  noto che il “part time”,  di fatto, “frena” la progressione di carriera.

La Corte di Giustizia  si è in diverse occasioni soffermata sul tema della parità di trattamento dei lavoratori part time proprio  sotto il profilo della protezione contro le discriminazioni indirette di genere. E’ il caso della pronuncia C – 385/ 11 del 22 novembre 2012,  nella  quale   si afferma che la Direttiva  79/7 Cee del 19 dicembre 1978 relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale deve essere interpretato nel senso che “osta, in circostanze come quella oggetto del procedimento principale, ad una normativa di uno Stato membro che esiga dai lavoratori a  tempo parziale, costituiti in  grande maggioranza da donne, rispetto ai lavoratori a tempo pieno, un periodo contributivo proporzionalmente maggiore ai fini della concessione della eventuale pensione di vecchiaia di tipo contributivo, il cui importo è proporzionalmente ridotto in funzione del loro tempo di lavoro”.  Ed è il caso, ancora, della  pronuncia della  Corte di Giustizia C 98/15 del  9 novembre 2017, relativa alla  indennità di disoccupazione per i lavoratori in regime di part time verticale, e quindi sempre afferente  il settore della sicurezza sociale.

Secondo i dati Istat “il part time è sempre più uno strumento utilizzato per la flessibilità dal lato delle imprese piuttosto che dal lato delle persone e delle loro esigenze di conciliazione dei tempi di vita”, e nel contempo  “il  forte incremento del part time ha investito anche il lavoro a termine, tanto che nella media dei primi tre trimestri 2019 il 43,5% delle lavoratrici a tempo determinato ha un lavoro part time, sperimentando così una condizione di doppia vulnerabilità, soprattutto se si considera che nell’82,1% dei casi il part time è di tipo involontario”.

Ulteriore elemento di riflessione riguarda il dato della “sovraistruzione”, misurata  “come percentuale di occupati che possiedono un titolo di studio superiore a quello che serve per svolgere quella professione sul totale degli occupati”.

Secondo la relazione Istat la sovraistruzione “cresce per entrambi i generi ma nonostante titoli di studio più elevati le donne incontrano maggiori difficoltà a trovare un lavoro adeguato al titolo di studio conseguito. La situazione è particolarmente critica per le laureate (35,2% nella media dei primi tre trimestri 2019) e per le giovani fino a 34 anni (42,0%)”.

 InoltreÈ maggiore tra le donne anche la quota di dipendenti con bassa paga (9,5% contro 5,8% in t1-t3 2019), ossia con una retribuzione oraria inferiore a 2/3 di quella mediana, soprattutto nel commercio, nella ristorazione e nei servizi alle famiglie. La bassa paga riguarda quasi il 16% delle giovani fino a 34 anni, e quasi il 17% di quelle con al massimo la licenza media inferiore

Rispetto  al divario retributivo e di reddito  la relazione Istat  rileva che  il minore  accesso alle figure apicali,  la maggiore diffusione del lavoro  part-time e  le carriere discontinuesono i fattori che  assieme ad una diversa struttura per età, determinano i differenziali di genere nei redditi da lavoro”.

La  Relazione Istat evidenzia che “La conciliazione dei tempi di vita è ancora una forte criticità: la presenza di figli rappresenta una forte criticità in termini di tassi di occupazione femminili….. La partecipazione delle donne al mondo del lavoro è molto legata ai carichi familiari, il tasso di occupazione delle madri è più basso di quello delle donne senza figli. Nel 2018 aumenta lo svantaggio delle donne (da 25 a 49 anni) con figli in età prescolare rispetto alle donne senza figli. Il rapporto tra i tassi di occupazione dei due gruppi è pari a 73,8 e si è ridotto rispetto al 2017 di 1,7 punti percentuali. Questo vuol dire che il tasso di occupazione delle madri è più basso del 26% di quelle delle donne senza figli. Se confrontato con il 2015, anno in cui si è registrato il più alto valore del decennio, la riduzione è di 4 punti percentuali. Le giovani donne con figli piccoli sono le più penalizzate (-2,1 punti percentuali rispetto al 2017). Il livello di istruzione ha un forte impatto nella mancata partecipazione delle donne con responsabilità familiari, con il gap rispetto alle donne senza figli che si riduce al crescere del titolo di studio…”.

Ed ancora, “considerando le donne non nubili di 25 anni e più emerge che la quota di donne che hanno interrotto il lavoro in seguito alla nascita dei figli è pari all’11% nel caso ne abbia avuto uno solo, al 17% nel caso ne abbia avuti 2 e al 19% nel caso ne abbia avuti 3 o più. L’analisi per classi di età mette in luce come la decisione di interrompere il lavoro riguardi sia le giovani sia le più anziane, con percentuali in alcuni casi più alte per le giovani. Ciò significa che le difficoltà di conciliazione dei tempi di vita non diminuiscono particolarmente nel tempo. D’altro canto la disparità di genere riguarda anche la condivisione dei carichi familiari”.

Se pure  le madri ed i padri  occupati sembrano riportare in eguale misura  problemi di conciliazione, sono tuttavia soprattutto le donne, secondo quanto si legge nella relazionead aver dovuto modificare  alcuni aspetti dell’attività lavorativa per meglio conciliare  il lavoro con le esigenze di cura dei figli, e le  principali modifiche sembrano riguardare la riduzione o il cambiamento dell’orario di lavoro.

La relazione dell’Istat si sofferma anche sulla “offerta di servizi socio educativi per la prima infanzia” che risulta “scarsa e mal distribuita sul territorio: nell’anno scolastico 2017/2018 sono attivi sul territorio nazionale 13.145 servizi educativi per la prima infanzia. I posti disponibili – di cui il 51% pubblici – coprono il 24,7% dei potenziali utenti, bambini con meno di 3 anni. Tale dotazione, pur in lieve aumento, è ancora sotto il parametro del 33% che l’Unione Europea aveva fissato già nel 2002 con il Consiglio europeo di Barcellona, come traguardo per gli stati membri da raggiungere entro il 2010 per sostenere la conciliazione della vita familiare e lavorativa e promuovere la maggiore partecipazione delle donne nel mercato del lavoro

Questo, in sintesi, il quadro tracciato dall’Istat.

Ai temi cruciali sui quali si è soffermato lo studio dell’Istat è “dedicata” la Direttiva UE n. 2019/1158 del 20.6.2019, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori  di assistenza.

La Direttiva, che  focalizza  l’attenzione sui «prestatori di assistenza»  e sulle «modalità di lavoro flessibili»,  ha come scopo l’adozione di politiche che, alla luce del principio di parità di genere, conducano ad un  diverso  equilibrio tra la vita familiare e l’attività lavorativa/professionale, ad una “condivisione” effettiva  del “ruolo di cura”, alla promozione delle condizioni per una ripartizione equa  ed effettiva delle responsabilità di assistenza in ambito familiare.

Il “considerando” n. 6 della Direttiva indica che : “le politiche in  materia di equilibrio tra attività professionale e vita familiare dovrebbero contribuire al conseguimento della parità di genere promuovendo la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e l’equa ripartizione delle responsabilità di assistenza tra uomini e donne, e colmando il divario di reddito e retributivo di genere. Tali politiche dovrebbero tener conto dei cambiamenti demografici, compresi gli effetti dell’invecchiamento della  popolazione”.   Nel   considerando n.10 si sottolinea che  la “difficoltà di conciliare l’attività professionale con gli impegni familiari” costituisce  il principale motivo della “sottorappresentazione” delle donne nel mercato del lavoro.

Tra le “misure appropriate”  per   pervenire ad una “pari fruizione dei congedi per motivi familiari tra uomini e donne”, come si legge al considerando n.12, vi sono anche  “l’offerta di servizi accessibili e a prezzi contenuti per la custodia dei bambini e l’assistenza a lungo termine, che sono cruciali per consentire ai genitori e alle altre persone con responsabilità di assistenza di entrare, rimanere o ritornare nel mercato del lavoro. …”.  Si legge inoltre al considerando n. 26 che  “Vi sono studi che dimostrano che gli Stati membri che offrono una parte significativa di congedo parentale ai padri e che versano ai lavoratori una retribuzione o un’indennità durante tale congedo a un tasso di sostituzione relativamente elevato, presentano un tasso più elevato di fruizione da parte dei padri e una tendenza positiva nel tasso di occupazione delle madri. È pertanto opportuno consentire la prosecuzione di tali sistemi, a condizione che siano rispettate alcune condizioni minime, invece di prevedere una retribuzione o un’indennità per il congedo parentale come previsto nella presente direttiva”;  al Considerando n. 31 si sottolinea che : “Gli Stati membri dovrebbero stabilire un livello adeguato di retribuzione o di indennità per il periodo minimo di congedo parentale non trasferibile garantito dalla presente direttiva. Nel fissare il livello della retribuzione o indennità previsti per il periodo minimo non trasferibile di congedo parentale, gli Stati membri dovrebbero tener conto del fatto che la fruizione del congedo parentale spesso comporta una perdita di reddito per la famiglia e che il primo percettore di reddito di una famiglia è in grado di esercitare il proprio diritto al congedo parentale soltanto se quest’ultimo è sufficientemente retribuito, in vista di consentire un tenore di vita dignitoso”.

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Nella Risoluzione votata il 30 gennaio 2020 (divario retributivo di genere – 2019 /2870 RSP) il Parlamento Europeo  ha sollecitato  la Commissione europea a proporre misure vincolanti sul divario retributivo di genere e sulla trasparenza retributiva, sia nel settore pubblico che in quello privato.

Nei “considerando” della Risoluzione si legge: “che in tutta l’Unione le retribuzioni delle donne sono sproporzionatamente inferiori a quelle degli uomini; che, secondo i dati più recenti della Commissione, il divario di genere nell’UE in termini di retribuzione oraria è pari al 16 %, anche se ciò varia notevolmente da uno Stato membro all’altro; che il divario retributivo di genere aumenta fino al 40% quando sono presi in considerazione i tassi di occupazione e la partecipazione totale al mercato del lavoro; che nell’UE soltanto l’8,7 % degli uomini lavora a tempo parziale rispetto a quasi un terzo delle donne (31,3 %); che vi è una specifica correlazione negativa tra la femminilizzazione di un’occupazione e il livello delle retribuzioni, come attestato dal calo dei salari medi delle imprese in cui il 65 % o più dei dipendenti sono donne”.

Inoltre : “che l’assistenza è un pilastro fondamentale della nostra società ed è svolta in gran parte da donne; che tale squilibrio si riflette nel divario retributivo e pensionistico di genere; che la maternità e la cura dei minori, dei familiari anziani, malati o disabili e di altre persone a carico rappresentano un lavoro supplementare o talvolta a tempo pieno svolto quasi esclusivamente dalle donne; che ciò si riflette altresì nella segregazione del mercato del lavoro e nel maggior numero di donne che lavorano a tempo parziale, con salari orari inferiori, con interruzioni di carriera e con meno anni di lavoro; che tale lavoro è spesso non retribuito e non adeguatamente valorizzato dalla società, benché sia di enorme valenza sociale e contribuisca al benessere sociale”.

Tra gli obiettivi della  Risoluzione:  fissare obiettivi chiari per gli stati membri per ridurre il divario retributivo di genere nei prossimi cinque anni (attraverso un Piano aggiornato sul divario retributivo); investimenti nell’istruzione primaria e servizi di assistenza; investimenti in accordi di lavoro che tengano conto dei bisogni familiari per garantire una partecipazione equa delle donne al mercato del lavoro; disposizioni adeguate per le donne più anziane, come crediti per periodi di cura, pensioni minime adeguate e benefici ai superstiti; promozione della formazione professionale e dell’apprendimento permanente per le donne,  dell’imprenditorialità, dello studio delle materie STEM e dell’educazione digitale per le ragazze fin dalla più tenera età.

 

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Orbene, ancor prima della pandemia COVID -19, come evidenziato, la  situazione dell’occupazione femminile nel nostro Paese, prima e dopo la nascita dei figli, era preoccupante.

Poi è arrivata la emergenza Covid -19, che ha imposto al Governo italiano l’adozione di  misure finalizzate al contenimento del contagio e alla salvaguardia della salute dei cittadini: tra queste, la chiusura delle scuole  con prosecuzione  dell’attività didattica “a distanza”  attraverso l’utilizzo di  strumenti  informatici  e  lezioni on-line.

Le attività di assistenza,  cura, istruzione ed educazione dei figli, stante il venir meno del supporto offerto dal sistema scolastico, sono  ricadute sulle famiglie e sui genitori lavoratori.

Le donne lavoratrici hanno visto ancor più vacillare il già  precario equilibrio tra attività  professionale e vita familiare.

Le misure di sostegno ai “genitori lavoratori”  contenute nel  d.l. 18/2020, poi convertito nella legge n. 27 del 24.4.2020, sono consistite, sino ad oggi, sostanzialmente in 15 giorni di congedo per nucleo familiare, retribuito con una indennità pari al 50% della retribuzione, fruibili dai  genitori  di figli al di sotto dei 12 anni (senza limite di età per i figli  disabili)    a condizione che nel nucleo familiare non vi sia  un genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o disoccupato o non lavoratore. E’ stato necessario un messaggio chiarificatore dell’Inps per affermare la  compatibilità  della fruizione di tali congedi  con la modalità di lavoro agile.

Altra misura prevista sino ad oggi è quella del cosiddetto bonus “baby-sitting” finalizzato all’acquisto di servizi di baby- sitting nel limite massimo complessivo di 600 euro.

Tali misure, introdotte per rispondere a una temporaneasospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche delle scuole di ogni ordine e grado”,  si rivelano  insufficienti ed inadeguate a fronteggiare  la c.d. Fase  2.

Anche in tale fase  le scuole resteranno  chiuse  e  sino a giugno si continuerà con la didattica a distanza. Ma nel frattempo riprendono le attività lavorative.

Secondo le notizie circolate in questi giorni dovrebbero attivarsi “percorsi all’aperto” per i bambini dai tre anni in su a partire dal 18 maggio, mentre dal primo giugno potrebbero essere attivati “servizi educativi” per i bambini da 0 a 6 anni ed i “centri estivi”. Nell’accesso a tali servizi potrebbe essere data la precedenza alle famiglie in cui lavorino entrambi i genitori, o in cui vi sia un minore con disabilità, o il cui lavoro sia incompatibile con lo smart working.  Il che potrebbe costituire un problema, considerate le difficoltà  di conciliare comunque il lavoro agile  (o meglio, il lavoro “da casa”)  con le necessità di cura e gestione dei figli, tanto che si è parlato  più volte in questi giorni, con riguardo alle donne, della trasformazione dello smart working in extreme working.

E che dire, ancora, nelle necessità di accudimento e cura degli anziani e dei disabili, in un contesto in cui le strutture di sostegno sono chiuse. Molte donne che lavorano hanno “in carico” anche  la gestione dei familiari anziani e/o disabili che  frequentavano, fino allo scorso febbraio, i  centri diurni.

Nelle varie bozze di Decreto circolate  in questi giorni (“Decreto  Aprile”, poi  “Decreto Maggio” e infine “Decreto Rilancio”) sembra essere prevista la estensione del congedo parentale COVID-19 introdotto con il decreto Cura Italia n.18/2020 (convertito con modificazioni nella legge n.27/2020 del 24 aprile),  che passerebbe  da 15 a  30 giorni sino al 30 settembre 2020,  sempre per i figli sotto i 12 anni di età (e senza limiti di età per i figli portatori di una disabilità grave).

A tale misura potrebbe affiancarsi la previsione di un periodo di permessi retribuiti di 12 giorni per il mese di maggio e  il  raddoppio del bonus per l’acquisto di servizi di baby-sitting per figli minori fino a 12 anni,  con previsione della detraibilità fiscale dei costi dei centri estivi, oltre che il “diritto” allo svolgimento dell’attività lavorativa in modalità  agile per i lavoratori del settore privati con figli di età inferiore ai 14 anni (anche con le deroghe – dirompenti – agli accordi individuali di cui alla legge 81/2017).

Considerato che le donne nel nostro paese guadagnano mediamente tra il 10 e il 18% in meno rispetto agli uomini,  la scelta del genitore che usufruirà del congedo retribuito al 50% è presto fatta.

Inevitabilmente verrà “sacrificata” la retribuzione della donna, che sarà la principale fruitrice del congedo.

L’emergenza Covid-19 e la crisi economica planetaria che ne consegue non potrà che determinare l’acuirsi del divario tra l’occupazione maschile e femminile.

In assenza di una rete familiare su cui contare o di risorse economiche  adeguate,   molte  donne rischieranno di uscire dal mercato del lavoro per le inevitabili difficoltà di conciliare le necessità connesse alla  ripresa dell’attività lavorativa  con la cura dei figli.

Tali riflessioni riguardano anche le persone con disabilità e le loro famiglie, sottoposte a “sforzi” ancora  maggiori.

Sappiamo che i licenziamenti individuali e collettivi per motivi “economici” sono momentaneamente “vietati”, sebbene ciò non riguardi di fatto colf e badanti, che si sono viste private anche di ammortizzatori sociali.

Ma quando  il divieto di licenziamento verrà meno? Che ne sarà  di tanti posti di lavoro in settori come quelli del terziario e dei pubblici esercizi, o del turismo, che vedono una grande presenza femminile.

Preoccupazioni per l’impatto del Covid-19 sulle donne sono state espresse il 9 aprile 2020 dal Segretario Generale delle Nazioni Unite in un documento ( “policy brief”)  nel quale sono stati  individuati i diversi “ambiti”  in cui la pandemia potrà  produrrà effetti, acuendo disuguaglianze di genere preesistenti e generando nuovi problemi. Nel paragrafo 2 del “policy brief” si legge che  gli effetti della pandemia in corso saranno particolarmente gravi per le donne «simply by virtue of their sex», tanto con  riferimento all’ambito economico, quanto alla salute, al lavoro di cura non retribuito, alla violenza di genere e a particolari contesti di fragilità, conflitto o altre emergenze.

Nel documento si sottolinea che le situazioni di  esclusione sociale, il mancato godimento di diritti fondamentali e la discriminazione per ragioni di genere  sono  “problemi strutturali a livello globale”: l’impatto del COVID-19 sul godimento di diritti economici e sociali “sarà particolarmente grave e pronunciato”  per quelle  categorie di soggetti che già prima dell’avvento della  pandemia erano in una condizione di “vulnerabilità”.

Il  tema dell’ impatto della epidemia da  COVID-19 “sulle donne” viene affrontato nel policy brief  con riferimento al  gruppo donne “generalizzato”, e dunque senza differenziazioni legate a specifici fattori quali il reddito, la nazionalità, lo status di migrante o l’origine etnica, ed in particolare viene evidenziata la questione  della diseguale distribuzione del lavoro di cura all’interno della famiglia  e delle “difficoltà di bilanciamento tra lavoro retribuito e carichi familiari ( nella “policy brief” si osserva che il  COVID – 19 ha “intensificato in modo esponenziale” la domanda di lavoro di cura).  Non sono oggetto di analisi le conseguenze dell’impatto della emergenza COVID-19 sulle condizioni di lavoro di alcune fasce di lavoratrici, come ad esempio  le  lavoratrici domestiche, per lo più straniere,  le quali potrebbero venire a trovarsi, in alcuni Paesi,   in una condizione di maggiore isolamento, vulnerabilità,  precarietà lavorativa[1].

Il policy brief contiene anche  una analisi sulla violenza di genere: risulta che  l’emergenza COVID-19 abbia generato un aumento significativo dei casi di violenza contro le donne, anche in conseguenza della  adozione da parte di molti Paesi  di misure di limitazione degli spostamenti e della libertà di movimento ai fini del contenimento del contagio.  Viene rimarcata la necessità di includere nel contesto di piani nazionali “di risposta” alla diffusione del COVID-19 anche le misure che qualifichino le “case rifugio” come servizi essenziali, oltre che l’aumento degli spazi a disposizione per l’accoglienza delle vittime di violenza ed  il potenziamento dei servizi .

Anche l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha pubblicato  un documento relativo  alla tutela dei diritti umani e delle donne durante l’emergenza da COVID-19 nel quale  sono state evidenziate “buone pratiche”  degli Stati in materia. L’Alto Commissariato ha evidenziato sia il particolare rischio di infezione cui alcune categorie di donne (tra cui le lavoratrici domestiche migranti) sono esposte, sia  l’impatto sproporzionato che il COVID-19 può produrre sulle opportunità lavorative e la protezione sociale delle donne migranti.

Si legge nel documento che “In molti paesi le donne sono concentrate nei lavori a basso salario e nel settore informale che sono altamente inclini ad interruzione. Le donne sono anche sovrarappresentate nei settori dell’ospitalità (hotel, ristoranti), vendita al dettaglio e servizi, che sono stati tra i più colpiti dalla risposta a COVID-19…. La chiusura di scuole e asili nido ha anche un impatto differenziale sulle donne genitori o tutori, che dovrebbero assumersi ulteriori responsabilità in termini di assistenza a causa di norme discriminatorie in materia di genere, limitando ulteriormente le loro opportunità lavorative ed economiche…. Quali sono alcune pratiche promettenti?  Gli Stati, i media e le presenze sul campo dell’OHCHR hanno segnalato una serie di misure, tra cui: Adozione di incentivi economici sensibili al genere e pacchetti di soccorso.… Promuovere soluzioni di assistenza all’infanziaPromuovere le pari responsabilità di cura di tutti i genitori e tutori e pratiche di lavoro flessibili e adatte alle famiglie……Garantire che gli incentivi economici e le reti di sicurezza sociale siano sensibili al genere e raggiungano e potenzino tutti.

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L’adozione di politiche e normative di contrasto alle discriminazioni e disuguaglianze di genere e al divario retributivo  di genere è  una priorità.

Si sottolinea che sia l’art. 5 della a CEDAW che l’art. 12 della Convenzione di Istanbul “sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica”  adottata dal Consiglio d’Europa l’11 maggio 2011 ed entrata in vigore il 1° agosto 2014 prevedono che  si adottino le  misure necessarie a promuovere il superamento di modelli stereotipati dei ruoli di uomini e donne sia all’interno della famiglia che nella società civile.

Il rispetto di tali obblighi si concretizza, tra l’altro, nell’evitare che il lavoro di cura non retribuito gravi in modo sproporzionato sulle donne.

Tali   obiettivi non possono che passare attraverso  politiche in  materia di equilibrio tra attività professionale e vita familiare e di equa ripartizione delle responsabilità di assistenza tra uomini e donne; attraverso politiche volte a colmare il divario retributivo di genere e a combattere la “segregazione professionale”; attraverso l’adeguata fornitura di servizi di educazione e cura e di “assistenza a lungo termine” accessibili anche economicamente; attraverso “investimenti in accordi di lavoro che tengano conto dei bisogni familiari per garantire una partecipazione equa delle donne al mercato del lavoro”, come indicato nella Risoluzione  votata dal Parlamento Europeo il 30 gennaio 2020.

 

[1] Si rinvia più diffusamente all’articolo  di Fulvia Staiano, è reperibile al link www.sidiblog.org/2020/05/03/limpatto-della-pandemia-da-covid-19-sulle-donne-considerazioni-sul-policy-brief-del-segretario-generale-dellonu-del-9-aprile-2020

8 Maggio 2020

Avv. Sara Antonia Passante

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