La tesi secondo la quale la qualificazione del rischio Covid -19 in termini di “rischio generico” (attesa la situazione di generale pandemia) determinerebbe la insussistenza in capo al datore di lavoro di un obbligo di “aggiornamento” del piano di valutazione dei rischi non sembra affatto convincente.
Le disposizioni emergenziali hanno imposto stringenti prescrizioni, vietando ai cittadini di lasciare il domicilio, salva la sussistenza di specifiche e stringenti ragioni.
Il lavoratore, a fronte di tali precetti, subisce un accrescimento del rischio già solo in quanto addetto ad attività non sospese e per le quali è tenuto a raggiungere il luogo di lavoro.
Il rischio per il lavoratore sussiste, inoltre, per il solo fatto di operare in un contesto in cui non ha alcun potere dispositivo.
Se nella vita privata il lavoratore ha la possibilità di isolarsi, limitare i contatti o non averli affatto, così non è quando egli opera in ambienti e spazi condivisi, ristretti, o addirittura a contatto con il pubblico.
In tali contesti il rischio “contagio”, che certamente riguarda tutta la popolazione, risulta accentuato per il lavoratore poiché, diversamente dal singolo cittadino, egli non ha alcun potere dispositivo sull’ambiente di lavoro in cui opera.
Si ritiene che possa dunque configurarsi quanto meno un <rischio generico aggravato>> qualificabile come quel rischio << la cui maggiore gravità deriva dalla stessa attività espletata che richiede al lavoratore di esporsi maggiormente a determinati fattori di rischio>>.
Il rischio “contagio”, già solo esaminando l’art. 42 comma 2 del DL n.18 del 17 marzo 2020 – convertito il L. 24 aprile 2020 n. 27[1] – dal titolo “Disposizioni Inail”, risulta non meramente “esterno all’ambiente di lavoro”. Detta norma stabilisce che è infortunio sul lavoro indennizzabile da Inail quello derivante dal contagio in occasione di lavoro.La disposizione risulta riprodotta in termini sostanzialmente identici nel testo di conversione in legge.
Vi sono nel contempo diversi argomenti che ci portano a ritenere che sussista in capo al datore di lavoro l’obbligo di procedere all’aggiornamento (o comunque ad una “integrazione”) della valutazione del rischio, ai sensi dell’art. 29 dlgs. 81/2008.
Tanto si afferma partendo proprio dal testo del Protocollo sottoscritto dalle Parti Sociali per il lavoro privato e pubblico il 14.3.2020 ove si delineano linee operative che introducono ad ulteriori misure dettate dal principio di precauzione (“si applicano le ulteriori misure di precauzione di seguito elencate – da integrare con altre equivalenti o più incisive secondo le peculiarità della propria organizzazione, previa consultazione delle rappresentanze sindacali aziendali – per tutelare la salute delle persone presenti all’interno dell’azienda e garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro”).
In termini analoghi il Protocollo siglato dalle parti sociali il 24 aprile 2020, richiamato nel DPCM del 26 aprile 2020 : “le imprese adottano il presente protocollo di regolamentazione all’interno dei propri luoghi di lavoro, oltre a quanto previsto dal suddetto decreto, applicando le ulteriori misure di precauzione di seguito elencate – da integrare con altre equivalenti o più incisive secondo le peculiarità della propria organizzazione..”
Da tali disposizioni si comprende che il datore di lavoro dovrà integrare le “misure” anti-contagio tenuto conto delle caratteristiche della propria organizzazione produttiva e dei diversi settori aziendali.
Spetta al datore di lavoro adottare specifiche linee precauzionali, prevedendo quanto meno una “addendum” od una “ integrazione” del piano di valutazione rischi basata sul contesto aziendale e sul profilo del lavoratore.
Certamente non può ritenersi delegata all’esterno, all’autorità pubblica, quella analisi più ponderata e completa del rischio da contagio Covid-19 che deve essere effettuata in ciascuna organizzazione produttiva.
In altri termini, le generali misure anti-contagio vanno calate in contesti tra loro diversissimi, e necessitano perciò degli opportuni adattamenti.
Gli argomenti contrari alla esistenza di un obbligo di valutazione del rischio in capo al datore di lavoro non sono persuasivi anche ove si consideri la chiara disposizione contenuta all’art. 28 del dlgs 81/2008, che prevede l’obbligo di effettuare l’analisi di “tutti i rischi”, e dunque non solo di quelli strettamente inerenti la produzione.
La disposizione fa riferimento a tutti i rischi presenti all’interno della organizzazione aziendale ai quali il lavoratore risulta esposto per il solo fatto di lavorare.
La valutazione del rischio secondo le disposizioni vigenti riguarda “anche” e dunque non solo “la scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati…” e “deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori…”.
Sin dal 2002 (a seguito della sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte di giustizia europea del 15 novembre 2001 nella causa C-49/00 ) il datore di lavoro è obbligato a valutare tutti i possibili rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori e non più soltanto quelli relativi alla scelta, all’utilizzo e alla sistemazione delle attrezzature di lavoro o alle caratteristiche delle sostanze utilizzate nell’espletamento dell’attività lavorativa.
Nell’attuale contesto, lo svolgimento dell’attività lavorativa determina sicuramente l’aumento della probabilità di esposizione ad un “danno” per il lavoratore; nel contempo, come si è evidenziato, vi è da considerare il dato della “costrittività” del lavoratore, il quale non ha possibilità di sottrarsi al rischio presente “nella organizzazione in cui presta la propria attività” ( si veda in tal senso l’art. 2, lettera q) del dlgs 81/2008).
È innegabile che per le attività lavorative che impongono lo stretto contatto con il pubblico (vedi le cassiere dei supermercati) il rischio da “ esposizione” al contagio sia rilevante.
Per queste categorie di lavoratori può davvero sostenersi che siamo di fronte ad un “rischio generico” e non “professionale” ? Davvero per tali categorie professionali il rischio “contagio” non si accrescerebbe in “ambito lavorativo”?
Si ritiene, alla luce delle disposizioni richiamate, che il datore di lavoro debba valutare il rischio lavorativo alla luce di ogni evenienza, inclusa quella del “contagio” che può avere, in questa fase, anche le sembianze del fornitore, del cliente, dell’utente etc.
Deve in tal senso rilevarsi che ancor prima dell’emergenza COVID-19 una impresa che comandava un lavoratore in trasferta all’estero in Paesi in cui poteva esservi il pericolo di contrarre infezioni particolari, doveva operare una preventiva analisi del rischio.
Invero, l’analisi del rischio di cui all’art. 28 dlgs 81/2008, come è stato chiarito con Interpello n. 19841 del 25.10.2016, deve sempre considerare tutti i potenziali rischi ambientali legati alle peculiarità del Paese in cui la prestazione lavorativa deve essere svolta: si tratta dei c.d. “rischi generici aggravati” legati alla situazione sanitaria o geopolitica di un Paese, da considerarsi non “astrattamente”, ma in correlazione all’attività lavorativa assegnata al dipendente.
Nell’attuale contesto l’imprenditore, nell’assegnare un lavoratore ad una attività ad esempio “in front office”, non potrà sottrarsi alla valutazione del rischio da esposizione al contagio.
Il nodo centrale è dunque l’analisi del rischio che riguarda il lavoratore per le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa in uno specifico contesto ambientale.
Si consideri che anche solo la misura del “distanziamento” in azienda ha un rilevante e significativo impatto sulla organizzazione del lavoro.
L’art 1 secondo comma lettera gg del DL n. 19 del 25.3.2020 dal titolo “misure urgenti per evitare la diffusione del Covid -19” stabilisce : “ai sensi e per le finalità di cui al comma 1, possono essere adottate, secondo principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso, una o più tra le seguenti misure: … gg) previsione che le attività consentite si svolgano previa assunzione da parte del titolare o del gestore di misure idonee a evitare assembramenti di persone, con obbligo di predisporre le condizioni per garantire il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale predeterminata e adeguata a prevenire o ridurre il rischio di contagio; per i servizi di pubblica necessità’, laddove non sia possibile rispettare tale distanza interpersonale, previsione di protocolli di sicurezza anti-contagio, con adozione di strumenti di protezione individuale”.
Si tratta di una norma elastica che assicura al singolo datore di lavoro di valutare quale sia il modo migliore per assicurare l’adempimento della regola del distanziamento.
Se i lavoratori sono chiamati a lavorare ad una distanza “ravvicinata” perché operano, ad esempio, sulla stessa pulsantiera, tale specifica situazione andrà valutata nel piano di valutazione dei rischi.
Certamente non può affermarsi che la regola cautelare è stata positivizzata dalla autorità pubblica e che, solo per questo, verrebbe meno la necessità, in capo all’imprenditore, di effettuare una specifica valutazione dei rischi.
Vero è, al contrario, che la valutazione rischi deve essere aggiornata non nella logica di fronteggiare il rischio che riguarda la collettività, bensì nella logica di prevenire il rischio che riguarda il lavoratore nello specifico contesto lavorativo in cui risulta inserito.
Si tratta, in ultima analisi, di adempimenti che hanno la loro radice nell’art. 2087 cc.
Avv. Sara Antonia Passante
[1] Art. 42.
Disposizioni INAIL
- In considerazione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, a decorrere dal 23 febbraio 2020 e sino al 1° giugno 2020, il decorso dei termini di decadenza relativi alle richieste di prestazioni erogate dall’INAIL è sospeso di diritto e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione. Sono altresì sospesi, per il medesimo periodo e per le stesse prestazioni di cui al primo periodo del presente comma, i termini di prescrizione. Sono, infine, sospesi i termini di revisione della rendita su domanda del titolare, nonché su disposizione dell’Inail, previsti dall’articolo 83 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124, che scadano nel periodo indicato al primo periodo del presente comma. Detti termini riprendono a decorrere dalla fine del periodo di sospensione.
- Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certi ficatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per an- damento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti dell’allegato 2 al decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 27 febbraio 2019, recante « Modalità per l’applicazione delle tariffe 2019 ». La presente dispo- sizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati.