Nuove tecnologie e controlli della prestazione lavorativa: fra interesse dell’impresa e diritti dei dipendenti. *****

L’arsenale tecnologico di cui dispongono oggi le imprese per sorvegliare l’attività lavorativa dei propri dipendenti, e svolgere controlli occulti estesi persino alla loro vita privata, ha assunto proporzioni fino a qualche tempo fa inimmaginabili, che vanno ben oltre l’occhio fisso del “Grande Fratello” concepito dalla fantasia premonitrice di Orwell.

Le “cimici” telefoniche sono oramai state superate da ben più sofisticati mezzi di controllo digitale, in rapidissima evoluzione ed espansione, al pari dei sistemi informatici sempre più massicciamente presenti nelle aziende come nella pubblica amministrazione.

Dall’estero giungono notizie inquietanti, come quella di una azienda giapponese che ha messo a punto un impianto WC in grado di analizzare l’urina dei dipendenti e di rilevare eventuali tracce di sostanze stupefacenti o alcolici; ma anche restando tra i confini nazionali non mancano casi, sempre più numerosi, di imprese che, ad esempio, hanno introdotto i badge attivi, nei quali è cioè inserito un chip di minime dimensioni, che consente di controllare gli spostamenti del lavoratore e quindi di verificare quando si allontana dal proprio posto, quanto si trattiene a mensa o con i colleghi, se partecipa o meno alle assemblee sindacali e così via.

E’ poi facile prevedere che i sistemi di rilevamento delle presenze e degli accessi ad aree aziendali tramite scanner biometrici (di impronte digitali o pupilla), oggi ancora rari, si diffonderanno ben presto con altrettanta rapidità.

Di conseguenza, l’esigenza di arginare l’abnorme potenziale di controllo intrinseco alle nuove tecnologie ed ai mezzi di comunicazione digitale (computer, posta elettronica, internet, cellulare), sovrapposto a quello dei più tradizionali apparati di video-sorveglianza o dello stesso telefono, ha innescato un processo di rivitalizzazione dell’art.4 dello Statuto dei Lavoratori; norma, questa, oramai risalente nel tempo, ma che nonostante ciò mantiene un connotato di stretta attualità, come dimostra il fatto che anche di recente (secondo quanto si dirà meglio appresso), mercé l’applicazione della stessa, siano stati repressi abusi aziendali nell’utilizzo di strumenti informatici a fini di illeciti controlli sui prestatori d’opere.

Infatti, è noto che la disposizione statutaria in questione sancisce il divieto di installare impianti audiovisivi ed altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività lavorativa, ad eccezione dei casi giustificati da esigenze organizzative e produttive, ovvero di sicurezza. In simili ipotesi, se ne deriva anche la possibilità di controllo dei lavoratori, l’adozione è ammessa previo accordo con le rappresentanze sindacali o, in mancanza, previa autorizzazione della Direzione Provinciale del Lavoro.

La violazione della norma è punita, salvo l’ipotesi di un reato più grave, con l’ammenda da 154 a 1.549 euro, oppure con l’arresto da quindici giorni ad un anno; nei casi più gravi, le pene possono essere applicate congiuntamente e l’autorità giudiziaria ha facoltà di quintuplicare l’ammenda.

Quindi, è inibita l’installazione di qualsiasi apparato che anche in via di mera possibilità permetterebbe di realizzare un controllo a distanza dei lavoratori, e ciò a prescindere dal fatto che il controllo si verifichi o meno in concreto.

L’efficacia repressiva dell’art.4 Legge n.300/70, peraltro, è suscettibile di manifestarsi non solo quando l’azienda abbia avuto come unico obiettivo quello di sorvegliare a distanza i propri dipendenti (laddove per “distanza” si intende sia quella spaziale che temporale), ma soprattutto nell’ipotesi in cui le apparecchiature installate pur con altri scopi leciti consentano anche solo accidentalmente di pervenire al risultato vietato dalla legge.

Infatti, come si accennava dianzi, in base al secondo comma dell’art. 4 St. Lav., è consentito l’impianto di sistemi che rispondano ad esigenze produttive ed organizzative dell’impresa ma che nel contempo potrebbero indurre a controlli sull’adempimento della prestazione lavorativa, a condizione che se ne disciplini l’utilizzo tramite intesa sindacale o, in difetto di accordo, a cura dell’istituzione pubblica competente.

Il legislatore, quindi, per un verso ha mantenuto fermo il divieto assoluto nei confronti di ogni iniziativa occulta e/o unilaterale del datore di lavoro e per l’altro ha demandato a due garanti – il sindacato o la D.P.L. – il compito di tutelare i lavoratori dal rischio di subire controlli a distanza preterintenzionali, occasionati cioè dall’adozione di apparecchiature o sistemi giustificata da oggettive necessità produttive e/o organizzative dell’impresa.

Gli odierni sistemi informatici e di comunicazione digitale possiedono evidentemente queste caratteristiche, poiché sono in grado di veicolare una quantità spaventosa di dati e di erodere così, annullandoli, i margini di riservatezza della vita aziendale e privata dei lavoratori .

Se è vero dunque che l’art. 4 costituisce tuttora un mezzo efficace per orientarsi nella definizione dei confini oltre i quali l’attività datoriale di controllo va ritenuta illecita, non dobbiamo dimenticare che anche il Garante della privacy è più volte intervenuto a limitare l’utilizzo indiscriminato delle nuove tecnologie da parte delle imprese, addivenendo talvolta a conclusioni particolarmente avanzate, tramite l’applicazione del Codice in materia di trattamento dei dati personali, di cui al D. Lgs. 30 giugno 2003 n.196.

E’ interessante perciò verificare quali linee di demarcazione fra gli interessi aziendali ed i diritti dei lavoratori hanno tracciato sia la giurisprudenza che l’Autorità Garante in materia di uso del computer, posta elettronica, navigazione sul web, badge di riconoscimento e dati biometrici.

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INTERNET Proprio di recente, con decisione del 2 febbraio 2006, il Garante ha vietato ad una società l’uso dei dati relativi alla navigazione in Internet di un dipendente, che pur non essendo autorizzato, si era connesso alla rete da un computer aziendale ed era stato in seguito licenziato per giusta causa, previa contestazione disciplinare alla quale era allegato l’elenco dettagliato dei siti a contenuto religioso, politico e pornografico consultati dal predetto.

Nel provvedimento del Garante si legge che simili controlli sono senz’altro sproporzionati, in quanto per contestare l’indebito utilizzo dei beni aziendali (cioè del computer) sarebbe stato sufficiente verificare gli avvenuti accessi al web e i tempi di connessione (integrando già questo un inadempimento da parte del lavoratore), senza necessità dunque di indagare sul contenuto dei siti. Invece, estendo i propri controlli, l’impresa aveva operato sistematicamente il trattamento diffuso di numerose altre informazioni –in modo subdolo e senza informare preventivamente l’interessato - concernenti dati sensibili idonei a tracciare un profilo delle convinzioni religiose, sindacali e dei gusti attinenti la sfera sessuale del dipendente.

Da cui – aggiungiamo – le implicazioni connesse alla violazione di un’altra norma statutaria, quella dell’art. 8, che fa espresso divieto alle aziende di condurre indagini sulle opinioni religiose o sindacali o su fatti non rilevanti per la valutazione della capacità professionale dei singoli lavoratori.

Da notare che il datore di lavoro si era difeso asserendo di non essere obbligato, secondo quanto previsto dall’art. 24 del D.Lgs. 196/2003, a raccogliere il consenso per il trattamento di tali dati, siccome nel caso di specie occorreva far valere dei diritti (rispetto al rapporto di lavoro ed alla sua risoluzione, nonché al patrimonio aziendale), anche ai fini della loro tutela in giudizio. L’impresa, inoltr