La controriforma del lavoro

 

di Alberto Piccinini e Carla Ponterio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Una controriforma incompiuta / 2. Il tentativo di conciliazione / 3. L’arbitrato / 4. La certificazione / 5. I limiti ai poteri del giudice / 6. Un nuovo sistema di decadenze.

 

 

1. Una controriforma incompiuta

 

Curiosa sorte, quella del disegno di legge cd. “collegato lavoro” (non ancora approvato alla data di pubblicazione di questo articolo ma ormai praticamente definito nei suoi contenuti[1]): destinato – nonostante un lungo e travagliato iter parlamentare[2] – a passare inosservato[3] grazie all'inserimento di pochi articoli in materia di lavoro in un contesto normativo complesso, è improvvisamente finito nel marzo 2010, nell’imminenza della sua (prima) approvazione da parte del Parlamento, al centro dell’attenzione dei media, che avevano “scoperto” uno dei possibili effetti della nuova legge: la sostanziale elusione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

Argomento caldo che aveva subito conquistato le prime pagine dei giornali, divenuto prontamente una delle parole d’ordine dello sciopero generale già indetto dalla CGIL per il 12 marzo 2010, tanto da indurre le associazione datoriali e la maggior parte delle altre organizzazioni sindacali[4]   ancor prima della promulgazione della legge – a sottoscrivere un impegno che iniziava a ridimensionarne la portata.

È stata, quella, la prima “correzione” di una legge che nel lungo corso della sua approvazione ha subìto, in alcune parti, modifiche significative rispetto agli intenti iniziali di chi l’aveva elaborata, mentre altre parti sono rimaste sostanzialmente invariate, con tutta la loro potenziale pericolosità.

Con la dichiarata finalità di voler ridurre un contenzioso giudiziario caratterizzato da processi eccessivamente lunghi, il disegno di legge si propone(va) di intervenire in tre momenti:

a) all’inizio del rapporto, attraverso un potenziamento dell’istituto della certificazione del contratto individuale di lavoro, fino ad ora utilizzato solo per escludere la sussistenza della subordinazione. Secondo il nuovo testo dell’art. 75 del decreto legislativo n. 276/2003[5] “le parti possono ottenere la certificazione dei contratti in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro” inserirvi clausole (ad esempio particolari “tipizzazioni di giusta causa o giustificato motivo” di licenziamento) per interpretare le quali “il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti”[6];

b) nel corso o alla cessazione del rapporto, al momento in cui sorge il contenzioso, sottraendolo al giudice grazie alla possibilità di “dirottarlo” sui binari dell’arbitrato, persino con facoltà di decideresecondo equità[7]. Per rendere effettivo il ricorso alla giustizia privata un ruolo chiave viene attribuito alla clausola compromissoria[8], che vincola chi la sottoscrive a rinunciare al giudice per qualunque questione dovesse sorgere in futuro;

c) davanti allo stesso giudice del lavoro. Ove non abbia esito positivo il fuoco di sbarramento costituito dal disincentivo a contrastare un contratto certificato e comunque dalla prevista devoluzione del conflitto in arbitri, e il lavoratore arrivi a depositare un ricorso in tribunale, la legge interviene anche sui poteri del giudice, cercando di limitarli.

In questo contesto è intervenuto il messaggio del Presidente della Repubblica[9] che - dopo aver prudentemente atteso l’esito delle elezioni regionali - in data 31 marzo 2010 ha rinviato alle Camere il testo della legge sollevando argomentati e motivati dubbi di legittimità costituzionale[10]. Se nei due anni precedenti l’intervento del Presidente il dibattito dei giuristi sul disegno di legge era stato praticamente inesistente, nei mesi successivi sono proliferati articoli, convegni e iniziative, con