RACCONTARE MELFI (atto primo)

Alberto Piccinini[1]

Il caso dei tre licenziamenti di Melfi ha occupato l’attenzione dell’opinione pubblica per tutto il mese di agosto 2010, tanto da indurre – come sempre accade in questo casi – tanti ”esperti” ad esprimere la loro opinione, spesso con scarsa cognizione di causa, non solo sui fatti ma persino sulle questioni di diritto ad essi connesse.

Proverò quindi a fare il punto della situazione per quanti, anche senza essere giuristi, desiderano approfondire la vicenda.

IL CONTESTO

La decisione della Fiat di costruire un nuovo stabilimento a Melfi risale alla fine degli anni ‘80 ed è riconducibile a diversi motivi. Se da un lato vi hanno giocato un ruolo rilevante i finanziamenti pubblici dell’ex legge 64/1986 (3.100 miliardi di euro, di cui 500 per le aziende dell’indotto), le altre ragioni più evidenti hanno riguardato la posizione baricentrica dello stabilimento rispetto al resto degli stabilimenti Fiat già esistenti e le caratteristiche socio economiche della popolazione interessata nel bacino territoriale di reclutamento della forza lavoro: una platea di lavoratori e lavoratrici priva dell’esperienza del lavoro industriale e per questo lontana da analoghe esperienze sul piano della partecipazione sindacale, soprattutto poi di quella più conflittuale.

Gli oltre 5000 addetti – che producono circa 320.000 autovetture all’anno - quotidianamente si recano alla SATA per lavorare non solo dalla due province lucane, ma anche dalle province di Bari, Foggia e Avellino (alcuni lavoratori giungono persino da più lontano, dalla provincia di Taranto in qualche caso e dal Molise) per poi intraprendere subito il viaggio di ritorno a casa: mancano, quindi, occasioni di aggregazione e confronto tra i dipendenti al di fuori dell’orario lavorativo.

Resiste inoltre ancora la figura sociologicamente definita di “metalmezzadro”, un lavoratore un po’ operaio, un po’ agricoltore part-time, e per questo più prossimo a una cultura contadina della conservazione e poco conflittuale.

Tutti questi elementi fanno sì che le maestranze della SATA di Melfi  non siano, di regola, particolarmente ribelli e rivendicative, salvo che non vi siano seri e concreti motivi di insoddisfazione.

I FATTI DI CAUSA

Alla fine del mese di giugno 2010 veniva proclamato a livello unitario dalle diverse sigle sindacali uno stato di agitazione per protestare rispetto ad un aumento non concordato dei carichi produttivi. La mobilitazione, per quel che ci interessa, coinvolgeva in particolare quattro linee produttive -  in cui l’attività produttiva aveva subito il maggior incremento -  denominate UTE (Unità Tecnologiche Elementari) che vengono normalmente rifornite di materiale da veicoli a guida automatica denominati carrellini AGV.

Nella notte tra il 6 e il 7 luglio 2010, alle ore 1,45 circa, veniva indetto lo  sciopero dalle RSU aziendali nell’ambito del citato stato di agitazione. Man mano che i lavoratori delle quattro UTE, informati delle sciopero, decidevano di aderirvi  uscivano dalle linee,  aggregandosi tra loro attraverso un corteo interno che si arrestava tra la UTE 3 e al UTE 4 per discutere dei carichi di lavoro. Nel momento in cui circa cinquanta dipendenti in sciopero (tra i quali numerosi delegati delle diverse sigle sindacali)  si trovarono a stazionare in quell’area vi erano i carrellini AGV fermi.

Intorno alle 2,20 sopraggiungevano due  responsabili delle UTE che intimavano a delegato FIOM Antonio Lamorte di riprendere la produzione. Il lavoratore, interdetto per il tono inutilmente acceso utilizzato dai due colleghi, rispondeva loro che si era ancora in sciopero. Poco dopo sopraggiungevano il Gestore Operativo Francesco Tartaglia e il Responsabile del Personale Savino Tribuzio  che si rivolgevano allo stesso delegato contestandogli l'interruzione della produzione in quanto posizionato in modo tale da bloccare la movimentazione dei carrelli AGV, per sentirsi rispondere che  i carrelli AGV non erano bloccati dalla presenza degli operai in sciopero. Tartaglia si rivolgeva quindi con tono minaccioso e duro a Pignatelli Marco, un dipendente che si trovava casualmente vicino a Lamorte, accusandolo di ostruire il percorso dei carrelli AGV e ammonendolo che avrebbe potuto essere licenziato. Attirato dalle urla del Gestore Operativo, il delegato Barozzino si dirigeva sul posto dicendogli che non gli era consentito di rivolgersi in quel modo al lavoratore. A questo punto, Tartaglia cominciava a dire: «allora sei contestato pure tu!» ripetendo più volte: «Barozzino e Lamorte  siete contestati».