LE VIE D’USCITA DALLA PRECARIZZAZIONE [1]

ALBERTO PICCININI

Il tema prescelto per questo convegno, e cioè la precarietà nel mondo del lavoro, è di straordinaria attualità: anzi fin troppa, perché sembra che solo da pochi mesi i media ed i politici si siano accorti di un fenomeno che non è certo nato ieri e non è limitato al nostro Paese. Ma né il suo consolidato radicamento né la sua dimensione internazionale (rectius globale) possono essere un alibi per evitare di cercare le soluzioni più praticabili per contrastarlo. Per fare ciò, evitando di ripetere vuoti slogan, occorre però conoscere quello di cui parliamo in tutte le sue complesse articolazioni e capirne le ragioni più profonde.

Comunemente per precariato intendiamo minori tutele nel rapporto di lavoro e comunque maggiori incertezza rispetto alla prosecuzione del rapporto stesso, accompagnate (ma non necessariamente) da minor salario e/o ridotti costi aziendali. Ebbene nell’ambito del lavoro subordinato (di quello para-subordinato, oltre che di quello “in nero”, parlerò in seguito), potremmo farne risalire le prime forme a oltre 20 anni fa. E’ infatti con la Legge 19 dicembre 1984, n. 863 (di conversione D.L. del 30 ottobre 1984, n. 726: Misure urgenti a sostegno e incremento dei livelli occupazionali) che veniva istituita la figura del contratto di formazione e lavoro, andando ad affiancare quella dell’apprendistato, già esistente dal 1955 (la seconda, a differenza della prima, continua a sopravvivere con alcuni aggiustamenti ai giorni nostri, ed anzi è stata valorizzata dalla recente legislazione): veniva in tal modo data ai datori di lavoro l’opportunità di rispondere alla domanda di lavoro dei giovani in cerca di prima occupazione, risparmiando sui contributi in cambio dell’assolvimento di obblighi formativi. In più, essendo il contratto di formazione un vero contratto a termine (senza causale), alla scadenza del periodo formativo restava in capo al datore di lavoro la scelta se proseguire la collaborazione trasformando o meno il rapporto in ordinario contratto a tempo indeterminato. Se non consideriamo il minor salario – normalmente tollerato da parte di ragazzi alle prime esperienze lavorative che generalmente vivevano ancora in famiglia – il principale elemento di precariato consisteva quindi nell’incertezza sulla continuità del contratto di lavoro, non essendo richiesta l’esistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo per poterlo risolvere.

Nel 1997, con la legge n. 196 (il cd. “pacchetto Treu”), veniva inserita nell’ordinamento una grande novità, sempre nell’ambito del lavoro subordinato: il lavoro temporaneo, meglio conosciuto con il nome di lavoro interinale, che oggi prende il nome di lavoro somministrato. Si trattava di una deroga al principio che fino a quel momento aveva visto, di regola, coincidere la figura del datore di lavoro con quella dell’utilizzatore delle prestazione lavorativa, consentendosi alle imprese, in casi strettamente regolamentati dalla legge (ed in deroga alla legge n. 1369/60, che per l’appunto vietava l’appalto di manodopera), di “affittare” dei lavoratori (dipendenti delle Agenzie interinali) per causali specifiche e periodi limitati nel tempo, anche in mansioni identiche a quelle svolte dai dipendenti dell’impresa utilizzatrice. I datori di lavoro vi fanno comunemente ricorso, nella forma a tempo determinato, oltre che per reali esigenze temporanee di manodopera, più che altro per sperimentare il personale da assumere.

Spesso con analoghe finalità le imprese utilizzano in modo massiccio il contratto a tempo determinato, essendo stata la facoltà di assumere con contratto a termine resa (apparentemente) più semplice dal D. Lgs. n. 368 del 2001, secondo cui può legittimamente essere instaurato un rapporto di lavoro a tempo determinato tutte le volte in cui ricorrano ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. Basti dire che circa la metà dei giovani che hanno trovato un impiego nel 2005 sono stati assunti con contratto a termine.

Come mai questa predilezione per il contratto a termine, quando sotto il profilo dei costi (retribuzione e contributi) il datore di lavoro non ne ricava alcun vantaggio?

Per una semplice ragione: che alla scadenza del termine il datore di lavoro è libero di scegliere tra trasformare il contratto in contratto a tempo indeterminato ovvero estromettere il dipendente senza dover fornire alcuna giustificazione. Ma questa auspicata “flessibilità” in uscita avrebbe un senso se fosse vera la leggenda secondo cui in Italia non si può licenziare nessuno, affermazione smentita da una legislazione che invece consente benissimo il recesso giustificato da un contratto a tempo indeterminato. Ed allora la ragione profonda della preferenza per tale tipo di contratto va cercata mettendo a fuoco non tanto il momento in cui il rapporto dovrebbe risolversi, ma tutto il periodo precedente, durante il quale il dipendente lavora “sotto schiaffo”: essa risiede quindi nell’assoluto squilibrio di potere esistente tra le due parti del rapporto, che pone la più debole in una situazione di ricatto permanente, condizionando – inevitabilmente – l’esercizio di tutti gli altri diritti individuali e sindacali, compreso quello di sciopero.

Possiamo quindi approdare ad una prima certezza, che varrà anche per le cose che dirò a proposito dei precari ancor più precari di quelli di cui sto parlando, quelli cioè che un rapporto di lavoro subordinato non se lo sognano neppure: qualunque soluzione si cerchi per introdurre garanzie e tutele durante il rapporto, non può ignorarsi la tutela delle tutele, l’architrave su cui si posano tutte le altre garanzie: la tutela dal recesso arbitrario dal contratto. Del resto che il diritto alla stabilità del rapporto rappresenti questo, è elemento non privo di riscontri giurisprudenziali al più alto livello: fu infatti la Corte Costituzionale, pronunciatasi in materia di decorso della prescrizione dei crediti retributivi, a riconoscere la presenza di un “metus” tale da condizionare eventuali rivendicazioni nei rapporti non assistiti dalla stabilità reale[2].

L’attuale maggioranza ha manifestato l’intenzione di intervenire, prossimamente, con una nuova legislazione che disincentivi il ricorso improprio al contratto a termine, in attuazione del programma elettorale dell’Unione che individua solo nel contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato “la forma normale di occupazione”. Va subito chiarito che non si tratta di una iniziativa particolarmente “estremista”, proponendosi di dare corpo ad un principio, ribadito dalla Corte di Cassazione[3], che trova le sue radici nello stesso ordinamento comunitario, secondo cui “i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro tra i datori di lavoro e i lavoratori[4].

Il governo invierà alle parti sociali un documento contenente gli orientamenti ministeriali, invitandole a confrontarsi per giungere ad un avviso comune su un testo di riforma. E’ auspicabile che esso dia piena attuazione alla espressa volontà comunitaria di “creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti da una successione di contratti di lavoro a tempo determinato” abusi og