Processo del lavoro

 

Il difficile compito dell’avvocato cassazionista del lavoro a due anni dalla riforma

 

di Alberto Piccinini ed Elisa Favè (*)

Avvocati in Bologna e Verona

L’articolo si propone di fare “il punto” della dottrina e giurisprudenza nel primo biennio d’applicazione della riforma del processo di cassazione nell’ambito del diritto del lavoro. Esso fornisce anche suggerimenti pratici per la stesura dei ricorsi, ponendo particolare attenzione alle segnalazioni e alle aggiornatissime citazioni giurisprudenziali richiamate nelle relazioni periodicamente diffuse dallo stesso Ufficio del massimario e del ruolo del Supremo Collegio.

 

Una “vera postulazione dell’esame di legittimità”

Il bilancio di due anni di giurisprudenza dopo la riforma processuale ([1]) sembra confermare che i Giudici di legittimità intendono perseguire, attraverso una rigorosa applicazione delle nuove regole, una riduzione del contenzioso arrivato a limiti insostenibili (il numero di sentenze del 2007 è arrivato quasi a 35.000): con lungimiranza un Autore fin dal 2005 aveva previsto – con particolare riferimento al “quesito di diritto” di cui si tratterà in seguito – l’introduzione di “una tagliola per il legale sprovveduto” ([2]).

Una prima disposizione “punitiva” finalizzata ad indurre gli avvocati a non proporre ricorsi infondati è relativa alla condanna alle spese, che ai sensi del (nuovo) comma 4 dell’art. 385 c.p.c. può arrivare fino aldoppio dei massimi tariffari ove si ravvisi una colpa grave nella proposizione del ricorso o nel resistere ad esso. Ma non è certo solo per questo che si è precisato che “la novella del 2006 ha lo scopo di innestare un circolo selettivo e “virtuoso” nella preparazione delle impugnazioni in sede di legittimità” ([3]).

 

C’è in piedi una vera e propria sfida – rivolta agli cassazionisti non per merito ma per dati anagrafici – a ripensare il modo stesso di redigere il ricorso (certamente più agevole è, di questi tempi, la redazione del controricorso) per aspirare, quantomeno, a non vederlo definire “inammissibile”: aggettivo non solo poco piacevole, ma foriero anche di possibili ripercussioni in termini di responsabilità professionale.

Ciò può avvenire ad opera della “Struttura centralizzata esame preliminare ricorsi civili” ([4]) – il cui scopo precipuo è quello della valutazione dei ricorsi che contengano una effettiva postulazione di legittimità – ovvero con ordinanza in camera di consiglio, su impulso del relatore nominato il quale non ritenga che il ricorso sia deciso in udienza ([5]) ovvero con sentenza nella stessa pubblica udienza: una vera corsa ad ostacoli finalizzata ad una drastica “scrematura” dei ricorsi prima ancora che possano essere esaminati nel merito.

Va considerato, inoltre, che fino alla riforma del 2006 non era previsto il contraddittorio delle parti per le questioni rilevate d’ufficio e poste a base della decisione: per ovviare a ciò è stato inserito il terzo comma dell’art. 384 c.p.c. per cui la Corte, quando ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, «riserva la decisone, assegnando con ordinanza al pubblico ministero e alle parti un termine non inferiore a venti e non superiore a sessanta giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione».

Questa doverosa disposizione, di fondamentale importanza in un contesto di «allarme sociale rispetto al moltiplicarsi delle inammissibilità» rilevabili anche d’ufficio ([6]), non viene però – nella prassi – ritenuta applicabile quando, ad esempio, sia il pubblico ministero a sollevare per la prima volta nella discussione in pubblica udienza una questione di inammissibilità: la Corte infatti ritiene non potersi parlare, in questo caso, di questione rilevata d’ufficio e riserva la decisione senza concedere termine ai difensori per replicare.

Se – come risulterebbe da dati non ufficiali – oltre il 30% dei ricorsi vengono dichiarati inammissibili, dobbiamo avere presente che solo riuscendo a superare la rigorosa selezione del prodotto elaborato – e dunque il nostro atto sarà ritenuto contente una “vera postulazione dell’esame di legittimità” anziché semplicemente “animato solo dal proposito di inaccettazione di una giusta decisione di merito” ([7]) – potremo aspirare all’udienza pubblica.

Prima di passare ad esaminare gli aspetti più delicati della riforma attraverso l’interpretazione e