Il Trasferimento di azienda ***** Nel presente articolo si affronterà l’istituto del trasferimento di azienda concentrando l’attenzione esclusivamente sulle modifiche apportate dal D.Lgs. 276/03 all’art. 2112 cod. civ. . Si rinvia ad una successiva analisi dell’istituto per l’illustrazione degli altri aspetti riguardanti l’istituto del trasferimento di azienda (ossia le modifiche sul rapporto di lavoro e la procedura sindacale). ****** Le modifiche attuate dall’art. 32 del D.Lgs. 276/03 del provvedimento in commento non riguardano tanto la disciplina dei diritti dei lavorati nel caso di trasferimento di azienda, né la procedura prevista dall’art. 47 legge 428, ma esclusivamente la nozione di trasferimento di azienda.

Nella legge delega (legge 30/03), il legislatore aveva espresso la necessità di modificare l’istituto del trasferimento d’azienda, per allinearsi con la direttiva comunitaria n. 01/23. Occorre peraltro ricordare che con il D.Lgs. 18/2001 erano già stati ampiamente assolti gli obblighi derivanti dall’appartenenza alla Comunità Europea: ed infatti sia l’art. 2112 cod. civ. che l’art. 47 della legge n. 428 erano stati modificati per armonizzarli con i principi comunitari .

Dunque il vero motivo che ha spinto il governo a ritoccare la normativa del trasferimento di azienda va solo ricercato nella volontà di introdurre rilevanti elementi per consentire e agevolare i vari processi di esternalizzazione, per completare cioè il quadro della riforma che, come ben sappiamo, ha come scopo principale quello di ribaltare gli orizzonti del diritto del lavoro introducendo svariati strumenti di “flessibilità”.

Il primo e rilevante intervento riguarda la ridefinizione del concetto di ramo di azienda, che nella precedente formulazione dell’art. 2112 cod. civ., era caratterizzato dall’autonomia funzionale preesistente al trasferimento. Con detta formulazione si consentiva l’alienazione o l’affitto solo di quei settori di azienda che effettivamente potevano considerarsi muniti di una minima organizzazione autonoma e indipendente dagli altri settori o reparti dell’azienda . In buona sostanza per aversi un legittimo trasferimento di ramo di azienda, occorreva che quest’ultima fosse una vera e proprie piccola impresa che potenzialmente poteva vivere “di vita propria” .

Un elemento importante era che il requisito dell’autonomia funzionale preesistesse al trasferimento, mentre con la riforma attuata dall’art. 32 questo requisito sembrerebbe venuto meno, in quanto la norma, pur confermando il requisito della autonomia funzionale, sancisce che detto attributo può essere identificato “come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento” con riferimento a quella parte di azienda che si intende trasferire.

Si tratta di una formulazione assolutamente oscura, che sembrerebbe assegnare alle parti contrattuali la possibilità di ritenere munito di autonomia funzionale il ramo di azienda che intendono trasferire. Da ciò discende l’evidente rischio che il requisito dell’autonomia funzionale si riduca ad una mera formalità. Sarà infatti sufficiente che le parti dichiarino che quel settore di azienda è munito di autonomia funzionale per scorporarlo dall’azienda principale e in tal modo liberarsi di tutti i lavoratori ad esso addetti.

E’ del tutto evidente che, al contrario, per le conseguenze che possono derivare dal trasferimento di azienda, occorre necessariamente che la “valutazione” della sua legittimità avvenga con criteri oggettivi e non sulla base di una valutazione delle parti interessate. Quel che si vuol dire è che, così come parrebbe concepita la norma, sarebbe facile per il datore di lavoro, muovendosi nella scacchiera della propria impresa, frantumare, a secondo delle esigenze e degli scopi[1], l’azienda dichiarando che i singoli pezzi sono muniti di autonomia funzionale al solo scopo di trasferirli ad altro imprenditore .

Siccome il requisito dell’autonomia funzionale per forza di cose non può ridursi ad una mera formalità, si ritiene che la norma debba essere interpretata nel senso che le parti – imprenditore cedente e imprenditore cessionario – potranno delimitare al momento del trasferimento la parte di azienda da alienare. In altri termini il concetto di “identificazione” va inteso nel senso che le parti contrattuali potranno svolgere solo un ruolo ricognitivo o di specificazione dell’autonomia funzionale già esistente. Una interpretazione che ritenesse, invece, che l’identificazione delle parti abbia una funzione costitutiva svuoterebbe del tutto il concetto – essenziale – dell’autonomia funzionale ed andrebbe anche a cozzare con i principi contenuti della direttiva comunitaria. n. 23 del 2001, che qualifica come trasferimento d’azienda quello di “un’entità economica che conserva la propria identità come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica…”.

In dette nozione sono contenuti due principi basilari:

a) che il settore di azienda trasferito deve mantenere la propria identità;

b) che esso deve riguardare un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere una attività economica.

E’ del tutto evidente che se si consentisse agli imprenditori di assemblare i pezzi dell’azienda a secondo delle loro esigenze per poi dichiarare che una parte è munita di autonomia funzionale, di certo non si rispetterebbero i principi comunitari che richiedono che il ramo d’azienda mantenga una propria identità nel trasferimento. Ciò significa, a mio avviso, che l’autonomia funzionale deve necessariamente preesistere al trasferimento, altrimenti non si potrebbe rispettare la linea di continuità richiesta dalla Direttiva Comunitaria ..

Ma vi è un ulteriore argomento.

La Direttiva Comunitaria richiede che questa identità sia riferita ai mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, ciò significa che il ramo di azienda trasferito deve essere costituito da un insieme di mezzi funzionalmente necessari all’esercizio dell’impresa .

Non assolverebbe a questo principio concedere alle parti contrattuali il potere di definire quell’articolazione dell’azienda come autonoma rispetto alle altre, se poi in concreto si procede a trasferire un settore di azienda privo di una propria identità e non determinato da un complesso di mezzi finalizzati all’esercizio dell’impresa precedentemente svolto dal cedente.

Per rafforzare questa opinione si ricorda che a mente dell’art. 2112 cod. civ. il trasferimento di azienda è il mutamento nella titolarità di una attività economica organizzata. Siccome detto concetto vale anche in caso di alienazione di un ramo di azienda, come ci può essere mutamento di titolarità rispetto ad una parte di azienda mai esistita prima e composta propria al momento del trasferimento?

Come si è cercato di dimostrare ci sono un complesso di elementi utili per contrastare una interpretazione che ha la funzione di spalancare le porte dell’impresa per far uscire il maggior numero di lavoratori e consentire quei processi di esternalizzazione che non rispondendo ad effettive esigenze organizzative o economiche dell’imprenditore di fatto non sono altro che forme di alienazione dei lavoratori ad altri imprenditori.

Per quanto riguarda la disciplina del mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di azienda nulla è cambiato rispetto il decreto legislativo n. 18 del 2001.

L’unica novità è contenuta nell’ultimo comma dell’art. 32, che prevede nel caso di cessione di azienda connessa con un contratto di appalto, una obbligazione dell’imprenditore cedente diverse da quella prevista dall’art. 2112 cod. civ.Torna Indietro