Le “modalità delittuose” sarebbero potute sussistere solo ove fosse stata confermata l’iniziale accusa dei dirigenti della SATA ai tre operai licenziati, quella cioè di aver messo in atto un vero e proprio “sabotaggio”, nell’intenzionale e deliberata volontà di arrecare danno all’attività produttiva: ma tale intenzione, come osservano i giudici di Potenza, era stata esclusa persino dalla sentenza del Tribunale di Melfi che aveva considerato legittimi i licenziamenti, ove si può leggere: “Nessuna premeditata volontà di sabotaggio aveva mai sostenuto il comportamento di nessuno dei partecipanti al corteo, difformemente da quanto lasciato intendere da alcune dichiarazioni pubblicate su due articoli comparsi su un noto settimanale nazionale ed acquisite agli atti”. Quel giudice di primo grado riteneva irrilevante come e perchè fosse stato inizialmente bloccato il carrello (accusa mai espressamente mossa nei confronti dei tre operai), essendo invece considerato assai grave il successivo impedimento, ritenuto volontario, del transito del carrello. Ed è curioso come, proprio da una rigorosa ricostruzione degli stessi fatti esaminati dal giudice di Melfi, la Corte d’Appello pervenga ad opposte conclusioni. Dopo aver, infatti, trascritto pagine e pagine di testimonianze su quanto accaduto nella notte tra il 6 e il 7 luglio del 2010, i giudici di secondo grado pongono l’accento su queste circostanze: 1) La situazione di conflitto con il gestore operativo è circoscritta ai dieci minuti che vanno dalle 2,20 alle 2,30 del mattino, quando il gestore operativo Tartaglia arriva nella zona in cui si trovavano una cinquantina di scioperanti: anzi, da un tabulato telefonico “regolarmente acquisito agli atti” che prova l’esistenza di una telefonata tra con cui Lamorte ha richiamato Barozzino, questo tempo si riduce a meno di cinque minuti; 2) “Non è indifferente” – scrive la Corte – che i dirigenti aziendali “si siano rivolti, tra tutti i lavoratori in quel momento presenti nella zona interdetta, proprio al Lamorte (...) ed al Barozzino (sopraggiunto solo in quel momento). (...) La scelta dei predetti, ed in un secondo momento, quasi “ a ruota” del Pignatelli (avvicinatosi ai delegati della propria organizzazione sindacale già impegnati nella discussione quali interlocutori dei responsabili aziendali (...) è stata la sola ed esclusiva ragione che, in un arco temporale come sopra delimitato, ha indotto a non allontanarsi i lavoratori poi licenziati, trattenutisi appunto sul posto per rispondere alle contestazioni che (solo) a loro venivano rivolte e che percepivano come ingiuste”; 3) “In un contesto in cui era in corso uno sciopero, le linee erano state bloccate ed i carrelli risultavano fermi (senza le luci di emergenza accese che potessero lasciare intendere la sussistenza di una anomalia nel transito) è verosimile che la contestazione (sia stata essa formulata come blocco della produzione ovvero come blocco dei carrelli) possa essere stata percepita come qualcosa di ingiusto”; 4) “Non può trascurarsi il fatto che, per le modalità con cui vennero date le disposizioni” volte a garantire la ripresa della produzione, “per la concitazione del momento e lo scontro sindacale dichiaratamente in atto (...) nonché per la situazione oggettiva del fermo dei carrelli” esse “siano state intese come dirette a censurare qualcosa (e cioè, appunto, il blocco dei carrelli) che i lavoratori assumevano di non aver provocato”; 5) L’unica circostanza certamente accertata è dunque questa: “La permanenza dei tre lavoratori licenziati in una zona interdetta al personale per alcuni minuti (5-6…) successivi all’intervento in loco del Tartaglia (dei quali, almeno i momenti iniziali in condivisione con altri lavoratori e delegati sindacali), in un contesto di animata discussione con il gestore operativo, caratterizzata da toni non propriamente pacati e dalla già sopra riferita percezione dell’ingiustizia della contestazione rivolta ai tre lavoratori in quel frangente in ragione dell’accertato fermo del carrello” . 6) La Corte fornisce anche una spiegazione della condotta dei sei delegati delle organizzazioni diverse dalla FIOM componenti la RSU, che nell’imminenza dell’episodio la notte stessa avevano sottoscritto un documento (destinato, però a “rimanere riservato”) che definiva “provocatorio” l’atteggiamento del gestore operativo, mentre deponendo come testimoni avevano cercato di ridimensionarne la portata. Osservano i giudici di Potenza come “tale comportamento (...) la dice lunga su quanto una posizione assunta in un ambito valutato come riservato e soprattutto come destinato a rimanere tale, possa aver risentito, nel momento della ufficiale e pubblica conferma, della necessità di apparire fedeli alla linea di contrapposizione sindacale” evidenziata dalla firma “separata” del cd. “accordo di Pomigliano” avvenuta a livello nazionale, da parte delle sigle di appartenenza, appena un mese prima dei fatti di causa. 7) Completamente diversa da quella fornita dal Tribunale è la “lettura” del comportamento di Pignatelli, che per aver incrociato le braccia era stato considerato spavaldo da quel giudice. Partendo dalle testimonianze che lo avevano descritto come “intimorito” e “imbambolato” scrive la Corte: “E’ veramente arduo sostenere, come fa il primo giudice, che dietro quelle braccia conserte vi potesse essere un atteggiamento di sfida” ben potendo, lo stesso gesto, essere ritenuto “come espressivo di una forte vulnerabilità (braccia incrociate come forma di difesa, per creare una barriera tra la persona e il soggetto che incute preoccupazione)”. 8) La Corte dà atto di come la discussione si sia fatta più animata dopo le contestazioni rivolte dal Tartaglia al Pignatelli “avvertite da più di un lavoratore presente ai fatti come un incomprensibile accanimento (...). In tale prospettiva rileva anche il primario ruolo sindacale rivestito dal Lamorte e dal Barozzino i quali, a fronte del diretto coinvolgimento di un iscritto FIOM nelle stesse accuse a loro rivolte (e per quanto sopra detto percepite come ingiuste) hanno ritenuto di intervenire in difesa del lavoratore”. 9) Le frasi degli operai rivolte al gestore operativo, ritenute irrispettose dal Tribunale, così vengono valutate dalla Corte: “lungi dal porre in discussione una gerarchia aziendale, sembrano in quel contesto più che altro dirette a reagire, da delegati sindacali, ad un ammonimento (al Pignatelli) valutato come improprio tanto nei toni quanto nella sostanza”. La Corte più volte evidenzia “il contesto ambientale di forte contrapposizione, nel quale i toni esasperati hanno reciprocamente valicato il confine di una discussione pacata e misurata” per escludere, comunque, che da parte dei sindacalisti vi fosse l’intenzione “di offendere ovvero intimidire l’interlocutore”. Conclude pertanto la Corte d’Appello di Potenza: “Discende dai rilievi sinora svolti – avuto riguardo soprattutto alle modalità, anche di tempo, della vicenda, che non evidenziano specifici, quanto a gravità, significativi addebiti a carico del Barozzino, del Lamorte e del Pignatelli, rispetto ad altri manifestanti, nonché al fatto che non risulta che questi ultimi siano stati raggiunti da alcun provvedimento disciplinare, a differenza dei suddetti Barozzino, Lamorte e Pignatelli, malgrado la sostanziale equivalenza dei rispettivi comportamenti sopra evidenziata – che i licenziamenti di cui trattasi rappresentano nulla più che misure adottate per liberarsi di sindacalisti che avevano assunto posizioni di forte antagonismo, con conseguente immediato pregiudizio per l’azione e la libertà sindacale”. Il collegio di difesa della FIOM non può che rallegrarsi del fatto che sia stato riaffermato il principio di giustizia già accolto con decreto dal primo giudice del Tribunale di Melfi del 9 agosto 2010, ma negato dal secondo giudice del Tribunale di Melfi con sentenza 14 luglio 2011: i tre licenziamenti, a seguito di una approfondita valutazione dei fatt