LA DISCRIMINAZIONE DELLE DONNE AL MOMENTO DEL LORO RIENTRO AL LAVORO DALLA MATERNITA' ***** La legislazione a tutela delle lavoratrici madri è particolarmente ricca nel nostro ordinamento.

Il corpus della normativa trae le sue origini, nell'ordinamento vigente, già dall'articolo 2110 del codice civile (approvato con R.D. 16 marzo 1942, n° 262) che al 1° comma tutela la maternità ed il puerperio sotto un triplice profilo: il diritto alla retribuzione o ad una indennità sostitutiva, il diritto alla conservazione del posto di lavoro, il diritto al computo nell'anzianità di servizio del periodo di assenza dal lavoro dovuto alla maternità.

Seguivano poi gli articoli 31 e 37 della Costituzione, deliberata dall'Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1° gennaio 1948, che si riportano testualmente:

· "31.- La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose.

Protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo".

· "37.- La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione".

La legge n° 1204 del 30 dicembre 1971 sanciva, tra l'altro, il divieto di licenziamento - già previsto nella legge n° 860 del 1950 – rendendolo operante in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza, indipendentemente dalla sua comunicazione o meno al datore di lavoro e, affermava che, durante il periodo in cui opera il divieto di licenziamento (dall'inizio della gestazione fino a quando il bambino non ha superato 1 anno di età) la lavoratrice non può essere sospesa a meno che non vengano sospesi tutti i lavoratori dell'azienda, o del reparto, il quale però deve avere una sua autonomia funzionale rispetto all'azienda.

Specificamente sul fronte antidiscriminatorio venivano pubblicate la legge 903 del 9 dicembre 1977, sulla parità di trattamento tra uomini e donne nel lavoro e la legge 125 del 1991 cd. legge sulle pari opportunità.

Il Testo unico sulla maternità e paternità, Dlgs 26 marzo 2001, n. 151, ha sistematizzato organicamente la materia delle tutele previste per le lavoratrici madri (e per i lavoratori padri) già introdotta dalla legislazione precedente, ed in particolare dalla legge 53/2000, che aveva modificato ed in parte abrogato le norme contenute nella legge 1204/71, riconoscendo al padre lavoratore dipendente il diritto autonomo al congedo parentale, anche nel caso in cui la madre non ne abbia diritto (ad esempio la disoccupata o la colf) ed estendendo il diritto a tale congedo seppure in forma limitata, anche alle lavoratrici autonome. Nell'ottica di favorire una maternità e una paternità responsabili del benessere del minore, si prevede il diritto per entrambi i genitori, per i quali non è richiesto vincolo coniugale, al congedo per i primo 8 anni di vita del bambino da fruirsi per un periodo di 6 mesi ciascuno, che, in caso di fruizione anche da parte del padre per almeno 3 mesi continuativi, diventa complessivamente di 11 mesi (sommando il congedo concesso alla madre e al padre) che possono essere anche fruiti contemporaneamente.

Deve rilevarsi che un grosso limite, tuttora presente nella normativa di tutela della maternità è che ne rimangano escluse le lavoratrici a domicilio e quelle addette ai servizi domestici e familiari, e che per usufruire del congedo parentale è necessario avere un rapporto di lavoro in atto: il congedo non spetta, quindi, alle lavoratrici sospese o disoccupate, in quanto è necessario che nel periodo suddetto sia prevista effettiva prestazione lavorativa, salva l’ipotesi del part time verticale e l’ipotesi di sospensione del rapporto per aspettativa politica o sindacale (sentenza Cassazione, sezione lavoro, n. 3112 del 3-3-2001).

Nonostante la corposa produzione normativa, della quale sopra ho ricordato soltanto i passaggi più rilevanti, la tutela effettiva delle condizioni di lavoro delle donne, sia nel corso ordinario del loro rapporto ( gestione degli orari e dei permessi e tutela della professionalità) che nel delicato momento del rientro in servizio dopo l'assenza per maternità, e ben lungi dall'essere attuata.

Ogni giorno, e purtroppo con sempre maggior frequenza, le donne vengono discriminate, private delle loro mansioni e sostituite da altro personale, lasciate in azienda sostanzialmente inattive o ancora oggi licenziate per il solo motivo di essere diventate madri.

Ciò nonostante che la legislazione sopra richiamata sia espressamente improntata non solo ad una tutela di “genere” ma anche a garantire che le donne, in quanto madri, non subiscano trattamenti deteriori correlati a tale loro condizione ed al ruolo di cura che tale condizione comporta.

L’art. 56 del testo unico 151/01 prevede espressamente una particolare tutela per la lavoratrice e il lavoratore, che siano genitori naturali o adottivi, che riconosce loro il diritto non solo alla conservazione del posto di lavoro, ma a rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupati sino al momento dell’astensione o in altra ubicata nel medesimo comune, e ad essere adibiti alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti, con divieto di trasferimento in un’altra unità produttiva per un termine coincidente con il compimento del primo anno di vita del bambino.

Questo è anche il periodo nel quale, come noto, opera il divieto di licenziamento che sorge, per la donna lavoratrice, al momento dell'inizio della gravidanza ed in connessione con il suo stato oggettivo (si rammenta che nel caso di licenziamento la lavoratrice dovrà impugnare entro 60 giorni il licenziamento e inoltrare entro 90 giorni l’idonea certificazioni al datore di lavoro attestante il suo stato di gravidanza).

Il divieto di licenziamento non opera soltanto nelle seguenti ipotesi:

Þ colpa grave da parte della lavoratrice e del lavoratore (giusta causa)

Þ cessazione attività aziendale

Þ ultimazione della prestazione lavorativa

Þ scadenza del contratto a termine

Þ esito negativo della prova

In quest’ultimo caso il datore di lavoro dovrà motivare e dimostrare il mancato esito positivo della prova, ciò al fine di escludere con ragionevole certezza che la risoluzione del rapporto è avvenuta in ragione della gravidanza della lavoratrice conosciuta al datore di lavoro [1].

La lavoratrice o il lavoratore non possono essere sospesi per Cig/S o per contratti di solidarietà nel periodo in cui vige il divieto di licenziamento, salvo che non sia sospesa l’attività dell’azienda o del reparto, inoltre non possono essere collocati in mobilità a meno che non si tratti di cessazione dell’attività dell’azienda.

Alle lavoratrici addette al lavoro stagionale è riconosciuto il diritto di precedenza per tutto il periodo che opera il divieto di licenziamento.

Per quanto riguarda le dimissioni (art. 55 T.U.) se presentate entro l’anno di vita del bambino, o di ingresso in famiglia in caso di adozione o affidamento, queste devono essere comunicate dalla lavoratrice, o dal lavoratore nel caso abbia usufruito dei congedi di paternità, ai servizi Ispettivi della Direzione Provinciale del Lavoro competente per territorio, che devono provvedere, una volta accertata l’effettiva volontà di risolvere il rapporto di lavoro, alla loro convalida, in mancanza della convalida le dimissioni sono inefficaci .

In caso di c