Nel settembre 2001 il Governo Berlusconi “inaugurava” la sua politica del lavoro - che avrebbe poi portato al Libro Bianco, alla legge n. 30 del 2003 ed decreto legislativo n. 276 dello stesso anno, attuativo della medesima - con il decreto legislativo n. 368[1], innovando profondamente la disciplina del contratto a termine. C’è da dire, in verità, che il decreto “ricalcava” un accordo collettivo separato sottoscritto con CISL e UIL[2]: ma nonostante questo, o forse per questo, la CGIL - che vi ha ravvisato seri pericoli per la tutela dei lavoratori - lo ha fortemente contrastato, temendo che la nuova normativa incentivasse un uso dei contratti a tempo determinato ancor più spregiudicato di quello consolidatosi nel corso degli ultimi anni.

Invero ci si potrebbe domandare quale sia il motivo del ricorso massiccio al contratto a termine da pare delle imprese, non trovando esso una sua giustificazione nel “minor costo” di contributi garantiti dal contratto di apprendistato o da forme di collaborazione autonome (partite IVA) o para-subordinate (oggi possibili, dopo l’eliminazione dei co.co.co., solo con contratti a progetto): gli oneri che gravano sull’impresa per il lavoratore a tempo determinato sono infatti identici a quelli per un dipendente a tempo indeterminato. Né è più facile licenziare il primo nel corso del rapporto, potendo anzi il recesso aver luogo solo per giusta causa: dunque durante il rapporto a termine il lavoratore è, paradossalmente, più tutelato del dipendente a tempo indeterminato, che può essere licenziato anche per giustificato motivo, non solo soggettivo, ma persino oggettivo: ad esempio contrazione dell’attività lavorativa; soppressione del posto di lavoro o inidoneità sopravvenuta alla mansione, salva la prova di una impossibilità di riutilizzo altrove.

Comunemente il ricorso improprio ai contratti a termine - tralasciando, quindi, quelle ipotesi in cui siamo in presenza di una reale necessità temporanea, ad esempio per la sostituzione di una dipendente in maternità - viene giustificato con la necessità di provare il dipendente per un periodo superiore a quello comunemente previsto, e ritenuto troppo breve, dai contratti collettivi. Con questa esigenza, di solito inconfessata, si cercano di giustificare lunghi contratti a termine (spesso con proroghe) magari preceduti da periodi di lavoro interinale svolto dalla stessa persona presso l’azienda.

Ma in realtà il principale vantaggio che il datore di lavoro persegue è in termini di potere: durante il contratto a termine il dipendente è in una situazione di precarietà, perché è costantemente sottoposto al ricatto della possibile non conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato. E questa situazione di precarietà non può che condizionare il lavoratore nell’esercizio dei suoi diritti: dal rifiuto del lavoro straordinario, a rivendicazioni di carattere economico, fino alla partecipazione a scioperi o iniziative sindacali.

Dunque, si diceva, l’entrata in vigore del nuovo decreto legislativo ha destato forti preoccupazioni, principalmente per la previsione delle ipotesi in cui il contratto a termine è giustificato: l’art. 1, comma primo, del decreto legislativo consente oggi infatti l’apposizione di un termine al contratto «a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo». Si è temuto che una formula così generica[3], unita alla contestuale abrogazione di tutte le leggi che per quasi quarant’anni avevano previsto tassativamente i casi in cui era consentito il contratto a tempo determinato[4], potesse favorire degli abusi. Ci si è quindi domandato da un lato se il datore di lavoro si obbligato ad indicare specificatamente, nella lettera di assunzione, quali siano tali ragioni, e dall’altro quali siano le conseguenze dell’accertata mancanza delle condizioni stabilite dalla legge, oggi – come già detto – del tutto generiche.

Sul punto si è recentemente pronunciato il Tribunale di Bologna, Giudice del Lavoro con una interessante sentenza che merita di essere richiamata[5].

Si trattava del caso di un dipendente assunto con contratto a tempo determinato ai sensi della nuova normativa, che ha contestato la legittimità del contratto per il fatto che non vi erano specificate le ragioni giustificanti l’apposizione del termine, deducendo la violazione dell’art. 1 comma 2 del decreto legislativo, interpretato nel senso che la forma scritta sia richiesta, oltre che per l’indicazione del termine del rapporto, anche per quella delle ragioni di carattere tecnico, produttivo o sostitutivo che, a tenore del comma precedente, giustificano l’apposizione del termine. La società datrice di lavoro ha contestato tale interpretazione rilevando che la seconda indicazione non era espressamente prevista dalla legge. Secondo il Tribunale di Bologna la formulazione del secondo comma «è infelice e tale da giustificare, sul piano dell’esegesi letterale della norma, entrambe le tesi sostenute dalle parti in causa» rendendosi conseguentemente necessario fare ricorso ad altri strumenti interpretativi. Sostiene il magistrato, tra l’altro, che la tesi aziendale dovrebbe senz’altro accogliersi ove si aderisse all’opinione dell’attuale acausalità del contratto di lavoro a termine, e cioè della sua completa liberalizzazione; secondo questa opinione la tendenziale onnicomprensività delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo indicate dal primo comma consentirebbe il ricorso a contratti di lavoro a termine anche in presenza di esigenze non temporanee di impresa. Sennonché tale interpretazione non è imposta dal tenore della legge, ed è stata confutata principalmente perché il decreto legislativo costituisce attuazione della direttiva comunitaria n. 70 del 1999, secondo cui la formula comune dei rapporti di lavoro è quella del rapporto a tempo indeterminato; e pertanto un’interpretazione della legge nazionale che non consentisse di cogliere le differenze delle ragioni che giustificano il ricorso all’una piuttosto che all’altra categoria di contratti si porrebbe in contrasto con la regola affermata dalla fonte comunitaria. Inoltre se si potesse fare ricorso a contratti a termine anche in presenta di esigenze non temporanee, ben difficilmente si potrebbe giustificare un regime limitativo della proroga, che è ammessa una sola volta e che richiede per di più l’individuazione di ragioni oggettive che devono riferirsi alle stesse mansioni già svolte. La previsione espressa del requisito di formale può interpretarsi quindi ma come il necessario contrappeso della perdita di garanzia data da una tecnica legislativa imperniata su una clausola generale. E cioè: «proprio il fatto che la legge rinunci ad una previa elencazione delle esigenze temporanee giustificanti l’apposizione del termine, richiede che esse siano indicate nell’atto stesso con cui il termine viene apposto». Il Tribunale di Bologna sviluppa il suo ragionamento ritenendo che solo in tal modo il programma aziendale che giustifica l’apposizione del termine acquisti la necessaria trasparenza; la causa giustificativa del termine deve essere valutata rispetto al momento in cui il contratto è sorto, perché altrimenti potrebbe essere fabbricata ad arte, od anche oggettivamente rinvenuta una causale però che non fu né prevista né voluta dalle parti contraenti.

Ad analoghe conclusioni