LICENZIAMENTI DISCRIMINATORI PER ETÀ NELLA RECENTE GIURISPRUDENZA ALBERTO PICCININI Il diritto del lavoro nazionale ha sempre utilizzato l’età per differenziare i trattamenti dei lavoratori sia per esigenze di tutela, come avviene per i minori, sia per ragioni di politica del lavoro, come è frequentemente avvenuto in materia di licenziamenti. A seguito di una delle novità più rilevanti introdotta dal dlgs. n. 216/2003, e cioè l’esplicita previsione del divieto di discriminazione per età, praticamente ignorato anche nel resto dell’Europa fino all’inizio di questo secolo , oggi si pone per gli operatori del diritto il problema di “rileggere” le disposizioni di legge e della contrattazione collettiva esistenti. Tale operazione - che impone, come è stato detto, un vero e proprio “salto culturale” - deve portare ad una rigorosa verifica se le ragioni che hanno portato a differenziare direttamente o indirettamente in base all’età possano considerarsi tuttora valide e idonee a fondare legittime esclusioni o giustificazioni delle disparità: in altri termini, se il mezzo prescelto sia appropriato e necessario . Io limiterò questo mio breve intervento ad un esame delle ripercussioni del divieto nella fase estintiva del rapporto di lavoro, nell’interpretazione della giurisprudenza. Un primo tema affrontato ampiamente è quello degli accordi sindacali che hanno adottato, all’esito delle procedure di mobilità ai sensi della legge 223/91, il criterio di scelta dei lavoratori da licenziare ancorato alla prossimità al pensionamento. Invero tre recenti sentenze della Corte di Cassazione - la n. 9866 del 24 aprile 2007, la n. 21541 del 6 ottobre 2006 e la n. 20455 del 21 settembre 2006 - sembrano escludere che, in tali ipotesi, il criterio possa ritenersi illecitamente discriminatorio. La prima decisione, infatti, ha escluso la sussistenza della discriminazione, diretta o indiretta, richiamata dal D.L. 20 maggio 1993, n. 148, art. 8 comma 2, convertito in legge 19 luglio 1993, n. 236 (e quindi senza prendere in considerazione il dlgs. n. 216/2003). Dopo aver premesso che «la determinazione negoziale dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare (…) deve rispettare non solo il principio di non discriminazione, sanzionato dalla L. n. 300 del 1970, art 15, ma anche il principio di razionalità, alla stregua del quale i criteri concordati devono avere i caratteri dell’obiettività e della generalità» la Corte ha deciso che «va considerato razionalmente adeguato il criterio della prossimità al trattamento pensionistico con fruizione di “mobilità lunga” giustificato il ricorso al criterio della prossimità al trattamento pensionistico (…) stante la giustificazione costituita dal minore impatto sociale e il potere dell’accordo di cui alla legge n. 223 del 1991, art. 5 comma 1 di sostituire i criteri legali e di adottare anche un unico criterio di scelta, a condizione che il criterio adottato escluda qualsiasi discrezionalità del datore di lavoro (Cass. n. 1760/1999; n. 13691/1999; n. 4140/2001; n. 13962/2002; n. 12781/2003)». Analogamente la sentenza n. 20455/2006 ha affermato che «con riferimento ai licenziamenti collettivi, il criterio del prepensionamento applicato in osservanza degli accordi sindacali e congiuntamente con il criterio produttivo risponde a indubbi criteri di razionalità, tenuto conto delle finalità perseguite (…) ferma restando l’osservanza del principio di non discriminazione». I primi giudici di merito che hanno però avuto occasione di affrontare la problematica alla luce del D.lgs. n 216/2003 sono pervenuti a conclusioni opposte , evidenziando – per l’appunto – che «dopo l’introduzione in Italia del principio di non discriminazione (diretta e indiretta) in ragione dell’età, valevole anche in sede di licenziamento, l’adozione del criterio in esame rappresenta un fatto di discriminazione indiretta in ragione dell’età, determinando una situazione di svantaggio per i lavoratori di età più elevata in quanto prossimi alla pensione rispetto ai lavoratori più giovani» specie in presenza di una «fattispecie concreta nella quale l’esubero della forza lavoro sia stato effettivamente quantificato a prescindere dall’individuazione di un ambito organizzativo di riferimento» in cui «viene ad essere pregiudicata ogni possibilità di controllo sull’effettivo nesso causale tra la prospettata riduzione e l’esigenza riorganizzativa dell’impresa e quindi sulla giustificatezza di ogni singolo licenziamento» . Queste decisioni si saldano con quelle della stessa Corte di Cassazione che, pur avendo ritenuto valido il criterio unico consistente nella vicinanza al pensionamento, avevano messo in evidenza che se lo stesso si fosse rivelato insufficiente ad individuare i dipendenti da licenziare sarebbe divenuto automaticamente illegittimo se non combinato con altro criterio di selezione interna non potendo il margine di discrezionalità del datore di lavoro nella scelta dei lavoratori pensionabili da licenziare essere utilizzato a mero scopo discriminatorio in violazione dei principi di correttezza e buona fede, ma dovendosi invece applicare criteri di razionalità, obiettività e non discriminazione . Per concludere su questo punto, dunque, gli accordi sottoscritti in occasione di una procedura di mobilità che prevedano l’età (intesa come requisito anagrafico per il pensionamento) come unico criterio di scelta dei lavoratori da licenziare sono in primo luogo illegittimi laddove si prescinde dall’individuazione di un ambito “organizzativo” di riferimento, pregiudicando ogni controllo sul nesso causale tra l’esigenza di riduzione, la prospettata riorganizzazione e i licenziamenti: «Nella stessa linea interpretativa esposta nella sentenza n. 6385/03 del Supremo Collegio si deve, del resto, confermare che il licenziamento collettivo non può essere “acausale” dovendosi attribuire a tale affermazione il significato pregnante per cui il datore di lavoro non possa omettere di indicare il nesso eziologico sussistente tra le esigenze organizzative concrete e la riduzione di personale (per aree di eccedenza), limitandosi a pubblicizzare, come nel caso in parola, semplicemente l’antecedente causale più remoto rispetto alla esigenza organizzativa (consistente nella necessità “originaria” di ridurre il costo del personale)» Ma, oggi, dopo dall’introduzione nel nostro ordinamento di un divieto esplicito di discriminazione per età, esiste un ulteriore ed assorbente motivo di illegittimità: «Sussiste una discriminazione in base all’età ai sensi del D.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 nell’accordo sindacale che individui la possibilità del lavoratore di accedere al pensionamento come unico criterio in base al quale collocare in mobilità i lavoratori» * Per quanto concerne i licenziamenti individuali, l’art. 11 della legge n. 604/1966 stabiliva che “le disposizioni della presente legge non si applicano (…) nei riguardi dei prestatori di lavoro che siano in possesso dei requisiti di legge per avere diritto alla pensione di vecchiaia”: la norma prevedeva quindi che raggiunta l’età in base alla quale si acquisiva il diritto alla pensione di vecchiaia si determinava una situazione di libera recidibilità dal rapporto di lavoro (sempre purché sussistessero i requisiti minimi per il diritto alla pensione). Alla data di entrata in vigore della legge n. 604/1966 l’età pen¬sionabile era fissata, in modo rigido, in 60 anni per gli uo¬mini e 55 per le donne: l’art. 4, legge n. 903/1977 introduceva quindi la pos¬sibilità, per le donne, di optare per la prosecuzione del rap¬porto di lavoro «fino allo stesso limite di età previsto per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e con¬trattuali, previa comunicazione al datore di lavoro, da ef¬fettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfeziona¬mento del diritto alla pensione», norma poi dichiarata incostituzionale dal Giudice dell