IL DIFFICILE COMPITO DELL’AVVOCATO  CASSAZIONISTA

A DUE ANNI DALLA RIFORMA[1]

 

Alberto Piccinini

 

Il bilancio di due anni di giurisprudenza dopo la riforma processuale del 2006[2] sembra confermare che i Giudici di legittimità intendono perseguire, attraverso una rigorosa applicazione delle nuove regole processuali, una riduzione del contenzioso arrivato a limiti insostenibili (il numero di sentenze dell’anno 2007 è arrivato a quasi 35.000): con lungimiranza un autore fin dal 2005 aveva previsto – con particolare riferimento al “quesito di diritto” di cui parlerò in seguito – l’introduzione di “una tagliola per il legale sprovveduto”[3]

Una prima disposizione “punitiva” finalizzata ad indurre gli avvocati a non proporre ricorsi infondati è relativa alla condanna alle spese, che ai sensi del (nuovo) comma 4 dell’art. 385 può arrivare fino al doppio dei massimi tariffari ove si ravvisi una colpa grave nella proposizione del ricorso o nel resistere ad esso.

Ma non è certo solo per questo che si è precisato che “la novella del 2006 ha lo scopo di innestare un circolo selettivo e “virtuoso” nella preparazione delle impugnazioni in sede di legittimità” (Cfr. Ordinanza n. 19895/2007)

C’è in piedi una vera e propria sfida -  rivolta a noi 40.000 avvocati cassazionisti non per merito ma per dati anagrafici -  a ripensare il modo stesso di redigere il ricorso (certamente più agevole è, di questi tempi,  la redazione del controricorso) per aspirare, quantomeno, a non vedercelo definire “inammissibile”: aggettivo non solo poco piacevole, ma foriero anche di possibili ripercussioni in termini di responsabilità professionale.

Ciò può avvenire ad opera della Struttura Centralizzata Esame Preliminare Ricorsi Civili[4] – il cui scopo precipuo è quello della valutazione dei ricorsi che contengano una effettiva postulazione di legittimità – ovvero con ordinanza in camera di consiglio, su impulso del relatore nominato il quale non ritenga che il ricorso sia deciso in udienza[5] ovvero con sentenza nella stessa pubblica udienza: una vera corsa ad ostacoli finalizzata ad una drastica “scrematura” dei ricorsi prima ancora che possano essere esaminati nel merito.

Va considerato, inoltre, che fino alla riforma del 2006 non era previsto il contraddittorio delle parti per le questioni rilevate d’ufficio  e poste a base della decisione: per ovviare a ciò è stato inserito il terzo comma dell’art. 384 per cui la Corte, quando ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, “riserva la decisone, assegnando con ordinanza al pubblico ministero  e alle parti un termine non inferiore a venti e non superiore a sessanta giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione”.

Questa doverosa disposizione, di fondamentale importanza in un contesto di “allarme sociale rispetto al moltiplicarsi delle inammissibilità”[6] rilevabili anche d’ufficio, non viene però - nella prassi  - ritenuta applicabile quando, ad esempio, sia il pubblico ministero a sollevare per la prima volta nella discussione in pubblica udienza una questione di inammissibilità: la Corte infatti ritiene non potersi parlare, in questo caso, di questione rilevata d’ufficio e riserva la decisione senza concedere termine ai difensori per replicare. 

Considerando che da dati non ufficiali sembra che oltre il 30% dei ricorsi vengano dichiarati inammissibili, dobbiamo avere presente che solo se riusciremo a superare la rigorosa selezione del