Ancora sulla equiparazione del periodo di astensione obbligatoria per maternità ai periodi di lavoro effettivamente prestato, ai fini della maturazione del diritto a diverse prestazioni previdenziali

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Una riflessione particolare sui diritti alle prestazioni di maternità (e paternità) delle/i lavoratrici/ori agricole/i a tempo determinato.

La materia della equiparazione all'effettivo svolgimento di attività lavorativa dei periodi di congedo per maternità (già denominato di astensione obbligatoria per maternità dalla legislazione precedente al riordino della materia ad opera del T.U n.151/01) è stata già sottoposta all'attenzione dei giudici del lavoro in più occasioni, in cui la questione era di rilievo per il riconoscimento del diritto a diverse prestazioni.

Il minimo comun denominatore delle pronunce, di cui qui si vuole dare conto - al fine di sostenere la rivendicabilità dei diritti, il cui presupposto sia ravvisabile nella soluzione di tale problematica - pronunce evidentemente tutte adesive alla interpretazione più favorevole, è costituito dalla valorizzazione dei diritti della lavoratrice madre e del principio di effettività della tutela da cui deve essere garantita la maternità nell'ambito del diritto del lavoro.

Esemplare in questo senso è la pronuncia con cui già la Corte Costituzionale, nel 1995, dichiarava “l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, comma 1, e 16, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n.223… nella parte in cui non prevedono che i periodi di astensione dal lavoro della lavoratrice per gravidanza o puerperio siano computabili al fine del raggiungimento del limite minimo di sei mesi di lavoro effettivamente prestato per poter beneficiare dell’indennità di mobilità” (Corte Cost., 12.9.1995, n.423).

Nel caso sottoposto allora al vaglio di legittimità costituzionale, la Corte doveva esprimersi in merito all’esclusione prevista dalle due norme di legge in esame nei confronti dei periodi di astensione dal lavoro per maternità, ai fini dell’integrazione dell’anzianità aziendale minima di almeno sei mesi di “lavoro effettivamente prestato” per poter beneficiare dell’indennità di mobilità. Ciò, a maggior ragione, a fronte del fatto che le medesime disposizioni legislative disponevano una deroga a favore delle ferie, delle festività e dei periodi di assenza per infortunio, ritenendo tali istituti comunque utili a far maturare il periodo di anzianità minima aziendale richiesta.

Ebbene, la Corte argomentava l’accoglimento della eccezione di incostituzionalità, sollevata con riguardo alla violazione degli artt.3, 1°e 2° co., e 37, 1° co., Cost., col dire che se la peculiarità delle ipotesi rappresentate da ferie, festività ed infortunio sembrava giustificare la differenziazione di disciplina rispetto ad altri istituti, altrettanto avrebbe dovuto ritenersi con riguardo alla maternità, richiamando in proposito “la giurisprudenza di questa corte, che ha più volte sottolineato il rilievo costituzionale del valore rappresentato dal ruolo di madre della lavoratrice (sentenze n.181 del 1993, nn.61 e 132 del 1991); rilievo che comporta che, nel rapporto di lavoro, non possono frapporsi né ostacoli, né remore, alla gravidanza e alla cura del bambino nel periodo di puerperio… In particolare, si è affermato che il principio posto dall’art.37 Cost., collegato al principio di eguaglianza, impone alla legge di impedire che possano, dalla maternità e dagli impegni connessi alla cura del bambino, derivare conseguenze negative e discriminatorie (sentenza n.61 del 1991)”.

Si valutino proprio le ragioni che facevano ritenere giustificata l’equiparazione alla effettiva prestazione lavorativa dell’assenza dal lavoro per infortunio, in virtù della espressa previsione di legge, col dire che, in quel caso, “si giustifica un atteggiamento di maggior favore per il lavoratore che, non solo senza sua colpa, ma proprio per adempiere agli obblighi derivantigli dal rapporto di lavoro, si ritrova impedito a proseguire nell’espletamento delle sue mansioni”.

Tale considerazione si attaglia perfettamente anche alla astensione obbligatoria dal lavoro per maternità, in cui la sospensione è disposta dalla legge per preservare la lavoratrice, e con essa prima il nascituro e poi il neonato, dai rischi connessi alla pericolosità dell'ambiente di lavoro, oltre che per garantire il soddisfacimento dei bisogni di cura e accudimento del neonato nei primi mesi di vita.

L'ispirazione di fondo che guida tutti i pronunciamenti in materia, anche quelli di cui si intende dar conto nel prosieguo - e cioè quella che trae spunto dal rilievo costituzionale delle esigenze di tutela della maternità, così chiaramente affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza sopra riferita - può evidentemente aiutare a risolvere nello stesso senso casi analoghi, accomunati dalla identità della problematica qui affrontata.

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Anche con più specifico riguardo all'indennità dovuta nel periodo di astensione facoltativa per maternità (oggi congedo parentale) a favore delle lavoratrici agricole a tempo determinato si sono avuti pronunciamenti della Corte di Cassazione, che ne ha riconosciuto il diritto con le sentenze nn.1959/96 e 356/97, pure ove il requisito richiesto ai fini della maturazione del diritto alle prestazioni di malattia per i lavoratori, pubblici e privati, con contratto a tempo determinato, e quindi ai fini delle prestazioni di maternità (in virtù del rinvio contenuto nell'art.15, co. 3, della l. n.1204/71) - requisito costituito da 51 giornate di effettivo lavoro svolto nell'anno precedente a quello di richiesta della prestazione, ai sensi dell'art.5, co.6, del D.L. 12.9.1983, n.463, convertito nella legge 11.11.1983, n.638 - fosse integrato computando anche i periodi di astensione obbligatoria dal lavoro della lavoratrice agricola a tempo determinato, per effetto della parificazione di detti periodi a quelli di effettiva prestazione lavorativa.

Affermava infatti l'organo di legittimità il principio generale secondo cui deve ritenersi che "il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, durante il quale è vietata la prestazione dell'attività lavorativa (art.4 legge n.1204/1971), sussiste il divieto di licenziamento ( art.2 medesima legge), e il periodo stesso è per legge computabile nella anzianità di servizio (argomentando dall'art.7 stessa legge, che considera computabili in tale anzianità persino i periodi di astensione facoltativa), equivalga, anche nel campo del lavoro agricolo, ad attività lavorativa effettivamente prestata" e quindi sia utile "ai fini del raggiungimento...del minimo di giornate lavorative previsto dalla legge per la valida instaurazione del rapporto assicurativo".

Traeva spunto la Suprema Corte, in tali occasioni, nel suo argomentare in senso favorevole al riconoscimento del diritto vantato e contrario alla interpretazione proposta dall'INPS, proprio dal dato normativo contenuto nel citato art.5 legge 11.11.1983, n.638 che al comma 6 dispone che "i lavoratori agricoli a tempo determinato, iscritti o aventi diritto alla iscrizione negli elenchi nominativi di cui all'articolo 7, n.5), del D.L.3 febbraio 1970, n.7, convertito, con modificazioni, nella l. 11 marzo 1970, n.83, hanno diritto, a condizione che risultino iscritti nei predetti elenchi nell'anno precedente per almeno 51 giornate, per ciascun anno, alle prestazioni di cui ai commi precedenti (ndr. trattamenti economici e indennità economiche di malattia) per un numero di giornate corrispondente a quello risultante dalla anzidetta iscrizione nell'anno precedente...."

E' la stessa norma di legge,