Art. 38 D.lgs 198/2006
Art. 40 Dlgs 198/2006
Dir. 2006/54/CEE recipita con Dlgs n.5/2010
Una lavoratrice, rientrata in servizio al termine del periodo di astensione per maternità, agiva in giudizio con ricorso ai sensi dell’art. 38 del dlgs.198/2006 come modificato dal dlgs 25.1.2010 n.5 al fine di fare accertare la sussistenza della discriminatorietà dei comportamenti attuati a suo danno dalla datrice di lavoro, consistiti in particolare nella dequalificazione professionale, nel ritardato pagamento delle sue retribuzioni, nella proposta di modifica/ riduzione dell’orario di lavoro con assegnazione di mansioni dequalificanti o in alternativa nella proposta di trasferimento ad altra sede di lavoro per la conservazione del ruolo professionale.
La lavoratrice formulava pertanto domanda di cessazione dei comportamenti illegittimi e discriminatori e di risarcimento del danno da discriminazione, utilizzando lo speciale procedimento previsto dal Codice delle Pari Opportunità.
Il Tribunale ha accolto il ricorso evidenziando che dalla istruttoria espletata era emerso che al rientro della maternità la lavoratrice non era stata restituita nella mansioni in precedenza svolte, pur essendo l’impiegata con maggiore anzianità di servizio; che la medesima era stata “confinata”, unitamente ad altra collega sempre appena rientrata dalla maternità, in altra postazione di lavoro, con assegnazione di mansioni oggettivamente dequalificanti; che le era stato proposto un gravoso trasferimento ad altra sede con effetti pregiudizievoli per la sua situazione familiare o in alternativa un impiego a tempo parziale con riduzione di orario di lavoro e di stipendio.
Sostiene il Giudice che “in tale contesto istruttorio era specifico onere del Consorzio resistente ex art. 40 dlgs 198/2006 dimostrare la insussistenza della discriminazione e, cioè, la esistenza di ragioni atte a giustificare in modo oggettivo il trattamento riservato alla ricorrente al rientro dalla maternità. Infatti, secondo l’art. 25 del dlgs 198/2006 costituisce discriminazione diretta <qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga>. In ambito comunitario è stato ritenuto che i trattamenti meni favorevoli legati allo stato di gravidanza e alla maternità costituiscono discriminazioni dirette fondate sul genere di appartenenza (…Corte Giustizia 4.10.2001 Causa C 109/00) ed è stato sottolineato in tale ultima decisione che un trattamento sfavorevole che colpisca una lavoratrice in ragione del suo stato di gravidanza e/o del suo stato di salute costituisce di per sé una discriminazione diretta per ragioni di sesso, indipendentemente dalla esistenza di un termine di comparazione, ovvero di un lavoratore favorito”.
Richiama il Giudice altresì le disposizioni della Direttiva 2006/54 ed in particolare il considerando n.25, nel quale viene qualificata come discriminazione sia il trattamento sfavorevole riservato alla lavoratrice in gravidanza o in congedo per maternità, sia il deterioramento delle condizioni di lavoro per avere fruito del congedo per maternità come il mancato riconoscimento di eventuali miglioramenti delle condizioni lavorative cui avrebbe avuto diritto se non si fosse assentata per maternità.
Poste tali premesse, rileva il Giudice come risulti “irrilevante ogni indagine sui profili di intenzionalità e colpevolezza delle condotte e degli atti posti in essere dal consorzio convenuto perché, nel vigente quadro normativo, l’illecito discriminatorio assume una valenza oggettiva incentrata sull’effetto pregiudizievole e non sulla intenzionalità della condotta”; aggiunge quindi che “era onere della resistente dimostrare che il trattamento riservato alla ricorrente al suo rientro dalla maternità era giustificato da oggettive ragioni tecniche, organizzative e produttive”.
Con riferimento alla domanda risarcitoria ex art. 38 Codice Pari Opportunità formulata dalla lavoratrice, rileva il Giudice come in tema di repressione di condotte discriminatorie “non sussista un rigoroso automatismo tra l’inibitoria del comportamento discriminatorio e la condanna al risarcimento del danno, posto che,anche in questa fattispecie, il Giudice, chiamato alla liquidazione del danno non patrimoniale in misura non meramente simbolica, non possa sottrarsi al puntuale accertamento della sussistenza di tutti gli elementi dell’illecito produttivo di un danno risarcibile al fine di non accordare una tutela risarcitoria di tipo punitivo, allo stato non ancora ammessa nel nostro ordinamento”.
Consegue che “la condanna al risarcimento non può essere pronunciata in modo astratto, ma va strettamente ancorata alla situazione concreta come accertata in corso di causa. Infatti nella quantificazione del danno non patrimoniale è necessario procedere secondo un criterio equitativo, avendo contezza della gravità del danno e del pregiudizio arrecato alla vittima, della intensità dell’elemento psicologico alla base del comportamento dell’autore, nonché del settore e contesto nel quale si è verificato il fatto”
Conclude il Giudice rilevando la sussistenza nella fattispecie esaminata di tutti gli elementi per procedere ad una “liquidazione del danno non patrimoniale in termini non meramente simbolici” e conseguentemente liquidando tenendo conto di tutto il periodo nel corso del quale si è protratta la situazione illegittima ed avendo come parametro di riferimento la retribuzione mensile percepita dalla lavoratrice.
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