Una cassiera, con venti anni di anzianità di servizio senza precedenti disciplinari, veniva accusata di aver omesso di rilasciare lo scontrino di cassa, in tre episodi ravvicinati nel tempo, ad altrettanti "clienti" (poi rivelatisi investigatori privati) di un supermercato, appropriandosi poi del relativo importo. La lavoratrice si difendeva negando gli addebiti, affermando di aver, probabilmente, provveduto a registrare nel corso delle stesse giornate l'importo non battuto a cassa, ed eccependo comunque una serie di questioni procedurali nonché la sproporzione della sanzione con riferimento al presunto danno complessivo (circa 70.000 delle vecchie lire). Il Tribunale di Reggio Emilia, giudice di primo grado, respingeva il ricorso ritenendo sussistere una lesione profonda dell'elemento fiduciario stente la "sintomatica concentrazione dei tre episodi in un arco temporale molto breve (dieci giorni)". La lavoratrice impugnava la sentenza censurandola in primo luogo rispetto alla legittimità degli accertamenti, effettuati da persone prive della qualifica di guardie giurate che, si affermava, avevano creato occasioni di inadempimento in quanto interessati ad un esito positivo dell'indagine e della causa. Sul punto la Corte d'Appello, invocando precedenti della Corte di Cassazione, ha dichiarato legittimi i controlli esercitati da dipendenti di un'agenzia investigativa operanti come normali clienti di un esercizio commerciale (Cass. n. 10761/1997), ritenendo possibile per il datore di lavoro esercitare tale controllo anche mediante la propria organizzazione, e quindi pure adibendo a mansioni di vigilanza determinate categorie di prestatori d'opera, anche se privi di licenza prefettizia di guardia giurata (Cass. n. 9576/2001) non coincidendo l'attività di acquisto dei prodotti alla cassa con l' "eseguire investigazioni o ricerche o raccogliere informazioni per conto dei privati" (Art. 134 TULPS). Pur censurando, poi, le modalità con cui l'azienda, con metodo plateale e discutibile, aveva dato pubblica lettura della lettera di contestazione, La Corte d'Appello riteneva ugualmente di confermare la decisione del Tribunale, non solo perché considerava l'operato della dipendente caratterizzato da estrema imperizia e negligenza, ma perché riteneva, in termini molto espliciti, che "con estrema probabilità i denari degli scontrini siano finiti direttamente nelle tasche della dipendente" e quindi "che il licenziamento fosse l'unica via percorribile, a fronte della gravità intrinseca della condotta (appropriazione indebita di somma di denaro), del ruolo specifico svolto dalla dipendente (cassiera), della reiterazione degli episodi (tre in una settimana)s
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